Le guerre nel mondo e il nostro coinvolgimento
Ci sono molte guerre nel mondo. Difficile avere un numero esatto (alcuni conflitti sono molto guerreggiati, altri sono “freddi”) ma, si calcola, almeno una sessantina dichiarate. A cui si aggiungono le guerre civili la cui definizione frequentemente è ambigua e sfugge a una facile classificazione.
Di queste solo una piccola parte viene seguita dai media: il conflitto Israele Palestinesi, quello adiacente siriano, quello afgano (è ancora una guerra o una guerra civile?), quello libico, lo stato di semi-guerra con l’Iran e, naturalmente, quello ucraino. E, con significativa accelerazione, le tensioni su Taiwan.
I conflitti sotto i riflettori sono sempre legati a interessi vitali dell’occidente.
Il punto è che gli interessi vitali per il nostro paese sono quelli che determinano il nostro benessere. E, sebbene sia un po’ cinico da dire, è questa la molla che ci fa impegnare nelle cose.
Così la guerra in Ucraina è importante per due motivi: per le possibili future scelte che Putin potrebbe fare se la reazione non ci fosse stata o cessasse di esserci; e perché quello è un paese chiave per il mondo intero per il grano e i cereali, per il Neon, per le terre rare e per il ferro (e in tutti questi settori i prezzi hanno subito forti contraccolpi) oltre che per il trasporto di gas.
Taiwan
Ma tutto questo impallidisce rispetto a quanto accadrebbe se, nel breve periodo, la Cina attaccasse Taiwan.
Taiwan non ha materie prime, ma è lì che si producono quasi tutti i chip elettronici della Terra. Sono taiwanesi la prima (TSMC 53.6%) e la terza azienda (UMC 6.9%) per volumi con un aggregato che vale già da solo il 60% della produzione mondiale. La seconda produttrice al mondo (Samsung) produce appena il 16% del mercato mondiale di chip. E, a parte una sola statunitense (che ha il 6% della produzione), le altre “grandi” sono due cinesi. Assieme questi sei attori producono il 91,5% del mercato dei chip.
Quindi tutti.
E, in questo gruppo, il “fronte occidentale” ne produce appena il 22%.
Una guerra sul suolo di Taiwan comporterebbe inevitabili contraccolpi nelle relazioni con la Cina e renderebbe necessarie reazioni e, quantomeno, una guerra commerciale. In un colpo, il mercato perderebbe il 70% della capacità produttiva. Tenuto conto che non esiste settore che non abbia necessità di chip, è facile capire come sia grave la situazione che si va delineando. A riprova basta considerare i tempi recenti: il semplice fatto che la produzione mondiale di microelettronica non era sufficiente rispetto alla richiesta mondiale, ha prodotto gravi ripercussioni sui mercati di automotive, computer e settori ad alta tecnologia. E si parlava di non poter produrre abbastanza per far fronte all’aumento di domanda. Se ci fosse un tale crollo della produzione, il mercato mondiale (non solo quello dei chip ma tutto) ne subirebbe un pesantissimo contraccolpo.
Il boccone amaro della globalizzazione selvaggia
La globalizzazione ci ha portato ad avere parti del mondo che hanno una esclusiva di fatto su determinate forme di produzione. Ma quelle produzioni sono vitali per noi. E noi non possiamo contare su questi paesi perché non sono stabilmente democratici.
Quello che sta succedendo è che stiamo riscuotendo i frutti malvagi di una globalizzazione che è stata condotta in un modo non ragionato e non guidato. Siamo dipendenti da paesi non pacifici e non amici se non apertamente ostili. Quindi la nostra sicurezza è legata al capriccio di potenti che non cercano un benessere generalizzato dei propri paesi.
Il problema è che le competenze che sono largamente disponibili in questi paesi sono difficili da sostituire. E, al tempo stesso, dobbiamo renderci conto che non possiamo non sostituirle. Che non possiamo essere così esposti ai capricci di oligarchi e oligarchie.
Quella che si apre è, quindi, una stagione mondiale rischiosa e complessa di riorganizzazione di catene di fornitura, di spostamento di competenze da paesi instabili a paesi stabili, di opportunità di crescita (nel sostituire le produzioni di alcune aree del mondo) e di rischi di collassi economici.
Una stagione in cui il nostro paese potrebbe giocare un ruolo ma necessiterebbe di una visione chiara del prossimo futuro. A partire dal tema della formazione.
Ma questa fase deve avere anche un riflesso di auto-consapevolezza. Dobbiamo porci due domande: quale è il valore del “sistema occidentale”? E cosa siamo disposti a fare per difendere questo valore?
Andrea Bicocchi @Andrea_Bicocchi