Il capo di stato maggiore dell’esercito, gen. Masiello, ha dichiarato al Corriere di qualche giorno fa: “l’Italia deve diventare una nazione con una capacità di deterrenza reale e credibile”.
Un’affermazione che non lascia molto spazio a commenti benevoli: il sottotesto è che non lo è. Che non abbiamo una credibile capacità di difesa. E neppure reale. In altre parole, se qualcuno, qualche nazione o forza esterna, dovesse decidere di compiere delle azioni ostili nei nostri confronti, non avrebbe a temere poi troppo.
La naturale reazione che molti avranno sarà: “perché mai qualcuno dovrebbe pensare di attaccarci? Per ottenere che? E, naturalmente, chi mai dovrebbe farlo?”
Certo, i confini interni all’Europa non costituiscono più fonte di preoccupazione neppure ipotetica o lontana. È impensabile che siano le nazioni dell’Europa continentale ad essere un reale rischio le une per le altre. Se dovessimo difenderci solo da questo forse avrebbe ragione chi sostiene che un esercito sia una spesa inutile e pure dannosa.
Ma non c’è solo questo scenario né solo questo rischio. La suddetta intervista lo rimarca a più riprese, identificando, in un mondo globale, rischi globali e scenari di impegno strategico che non sono più solo regionali e di prossimità. Senza contare che il fronte sud, seppure riparato dal mare, è tutt’altro che in uno stato di tranquillità. E, per altri versi, proprio perché la frontiera sud è marina, è aperta ad una vasta varietà di possibili minacce.
Ma le minacce maggiori non sono quelle all’integrità territoriale, sebbene l’esperienza ucraina stia a dimostrare che neppure questo è uno scenario impossibile o remoto. Le minacce principali sono quelle che provengono dalla difesa di interessi strategici globali e da scenari di attacchi non convenzionali.
I primi sono quelli che riguardano la tutela del diritto internazionale. Che, in questo nostro mondo, deve essere ancora tutelato, anche con la forza quando la diplomazia fallisce. Come evidenzia quanto succede al largo delle coste del Corno d’Africa e di fronte alla Yemen. Ma anche come quello che potrebbe accadere (con un condizionale sempre meno ipotetico) attorno a Taiwan e, in generale, nel quadrante del Mar Cinese – Oceania.
I secondi scenari sono quelli del mondo virtuale. Un mondo che pare innocuo in termini di sicurezza nazionale ma che in realtà è quello che maggiormente è terra di conquista e di scontro, vero far west dei nostri giorni, in cui potenze nazionali spregiudicate si muovono con un potenziale di impatto molto rilevante. Non solo e non tanto nelle azioni da film di fantascienza che vedono dighe crollare e aerei cadere, quanto nelle azioni di disinformazione, orientamento dell’opinione pubblica e guerra psicologica che riesce a creare evidenti problemi di stabilità alle nostre democrazie.
Oggi non possiamo dire che l’Italia ha un apparato di difesa all’altezza delle sue necessità. E infatti nessuno lo dice. Ma non possiamo neppure dire che una tale difesa non sia necessaria.
Pensare di vivere in una riedizione del paradiso terrestre, naïf e puro, è un errore che non possiamo fare. Il nostro mondo non è puro ed è popolato da soggetti che non sono decisamente naïf ma che piuttosto ragionano in termi di rapporti di forza.
Questo non vuol dire che anche noi dobbiamo ragionare, sic et simpliciter, in questi termini. Ma essere civili non vuol dire neppure farsi deboli e mettersi nelle mani degli altri. Vuol piuttosto dire essere realisti ma rifiutare di applicare la nostra forza per fare soprusi. Vuol dire piuttosto metterla a servizio di una idea di umanità giusta ed equa. Se si vuole raggiungere un simile traguardo bisogna mostrare, anche e soprattutto a chi ha una considerevole forza, che con quella non otterrà i suoi obiettivi. Che non potrà applicarla impunemente contro l’avversario di turno. Che c’è ancora chi sa mettere la propria forza a servizio di un progetto comune e di una idea di equità che non possiamo abbandonare.
I latini dicevano: “si vis pacem, para bellum” (se davvero cerchi la pace, fatti trovare pronto per una guerra). Questo aforisma non è un inno alla violenza; e neppure una triste e pessimistica rappresentazione dell’umanità. È la concreta osservazione che nulla cancellerà violenza e male dal nostro mondo e che quindi, se qualcuno davvero vuole limitarne lo spazio di azione, deve attivare le sue risorse per porre dei limiti al violento e al prepotente.
Foto di Art Guzman
Mi pare importante applicare l’art. 11 della Costituzione repubblicana che così recita.
” L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.”
L’articolo 11 spiega che l’Italia non può dichiarare, per prima, guerra ad un altro Stato e non qualsiasi tipo di guerra, ma solo le guerre di aggressione. Questo significa, da un lato, che l’Italia potrebbe partecipare a guerre proclamate e già avviate da altri Stati, così come del resto è successo nei conflitti in Medio Oriente, nel corso dei quali abbiamo prestato assistenza agli alleati. Dall’altro lato, poiché l’Italia è una e indivisibile e l’articolo 52 della stessa Costituzione stabilisce che «la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino», l’Italia potrebbe indire una guerra difensiva, rivolta cioè a tutelare il nostro popolo dalle altrui mire espansionistiche. L’articolo 11 dichiara infatti l’illegittimità della sola guerra di conquista, quella di oppressione. «Pace» non vuol dire restare bersagli indifesi delle altrui aggressioni. Quindi l’Italia potrebbe partecipare a un conflitto armato laddove dovessero essere messi a repentaglio i propri confini o i propri precetti di democrazia.
In ultimo, sono sempre ammesse le missioni di pace e le missioni umanitarie.
Sostenere una posizione come questa comporta il rischio di essere tacciati da “bellicista”, se non addirittura da “guerrafondaio” da parte di certi quartieri dell’opinione pubblica ( e certamente da parte di certe “anime belle”). Ma basta desiderare la pace, parlarne dottamente ed evocarla anche con accoramento per costruirla davvero? Millenni, non soltanto secoli, di storia dell’Umanità portano a dire di no, che non basta. Le volontà di potenza tra stati continuano a scontrarsi tragicamente con quel sano desiderio. Ed oggi la “tecnologia” della guerra ha raggiunto livelli incredibilmente patologici di aggressività distruttiva, mentre il fatto che spesso a fronte di stati non troviamo altri stati bensì veri e propri movimenti terroristici crea enormi problemi sul piano della stessa applicabilità del diritto internazionale.
In attesa che venga posta in grado di operare una autorevole istituzione internazionale competente in materia, vale la pena riflettere sulla pace come costruzione di soluzioni alternative non violente, che richiede tempo, volontà e capacità di negoziazione, sagacia e “doverosa” preparazione. A mio avviso, la difesa resta legittimamente ammessa in tutti i casi di aggressione, inclusi quelli eventualmente “provocati”, perché l’aggressione, che è il nòcciolo stesso della guerra, deve essere ripudiata ma anche respinta.
Del resto Il neutralismo ed il pacifismo astratto non fanno parte della nostra cultura: Unione Europea e Alleanza Atlantica furono e restano scelte complementari. Siamo prossimi ad elezioni molto importanti per l’Europa anche da questo angolo visuale, nel presente contesto internazionale. Abbiamo pertanto il diritto/dovere di chiedere e di sapere, prima di votare, come i partiti e gli uomini che voteremo (e naturalmente come disse il grande biologo e filosofo Jean Rostand -1894/1977- con un suo arguto aforisma, il concetto di uomo “abbraccia” la donna!) se e come intendono collegare la ricerca della pace – ricerca che è fin dall’inizio fa parte del progetto europeo – con il rafforzamento della difesa europea che rappresenta oggi il livello sovranazionale su cui si colloca un tale progetto come ben chiarisce il contributo.