Rapporto Draghi: oltre l’economia c’è molto di più.

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Prendo le mosse dall’articolo dal titolo Europa, c’è qualcosa oltre l’economia? pubblicato su questo giornale.

A questa lucida e ficcante domanda fornisce una qualche risposta il Rapporto Draghi recentemente presentato a Bruxelles alla committente von der Leyen, rieletta al vertice della nuova Commissione Europea. Come era prevedibile il Rapporto è in gran parte dedicato a materia economica, data l’esperienza professionale di un economista del calibro di Draghi. Leggendolo con attenzione si può però coglierne una sostanziale (e sostanziosa) filigrana che va ben oltre l’economia. E a quella, piuttosto che a questa, è dedicata al momento la presente nota.

Due annotazioni sono importanti come premessa a quanto segue.

Prima: il titolo del Rapporto è “Il Futuro della Competitività Europea”. Questo lascia intendere che esso poggia decisamente, come scelta analitica e come proposta programmatica di fondo, sul Pilastro Economico per l’Europa, piuttosto che su quello Sociale, non meno importante per certi quartieri e nell’esperienza storica dell’UE nel suo complesso, e per l’Italia in particolare. Si tratta di una visione di prospettiva di non piccolo conto che, ovviamente, può piacere o non. Val la pena di ricordare che il termine viene da lontano ed ha un suo ‘pedigree’; si ritrova infatti nel “Libro Bianco” (1993) di Jacques Delors che fu presidente della Commissione Europa (1985-95).

Seconda annotazione: il termine “competitività” non è nel Rapporto adoperato nel senso rozzo dell’esperienza concreta europea più o meno recente, vale a dire come strategia deliberata tesa a contenere o addirittura a ridurre i costi salariali di un paese rispetto agli altri (competitività interna), con ricorso combinato a politiche fiscali pro-cicliche. Il risultato netto di ciò è stato, come è documentabile, quello di indebolire nel suo complesso la domanda interna e logorare il modello sociale europeo. La parola “competitività” va semmai interpretata nel quadro geopolitico bipolare che è venuto a determinarsi in un mondo molto cambiato negli ultimi decenni, centrato su due colossi come gli Usa, da una parte, la Cina, dall’altra e con l’UE che rischia di fare la parte del vaso di coccio apparendo essa inadatta, per la sua frammentazione politica, a fronteggiare le sfide della modernità in campo geo-climatico e ambientale, demografico e militare.

A dire il vero, l’accento posto fin dal titolo sulla parola “competitività”- che non è affatto sinonimo di competizione – suscita qualche perplessità perché è tutta da dimostrare l’idea che gli Stati e le aree economiche competano allo stesso modo delle imprese, come potrebbe apparire. Una analisi tutta “quantitativa” dei contenuti del testo del Rapporto – analisi condotta con moderni algoritmi – consente di mettere in evidenza che la parola “competitività” ha senz’altro un ruolo preminente nella “nuvola di parole” ricavabile, ma non minor peso ha anche quella di “produttività” da intendersi in senso ampio e cioè come capacità ex ante di produrre e innovare piuttosto che come produttività ex post dei fattori di produzione. Questo dato stempera la forte evocatività dell’altro vocabolo suggerendo con maggior precisione la coordinata su cui basare il cambiamento che si desidera in Europa.

Tre sono poi sono le proposte centrali che permeano tutto il Rapporto: 1) ridurre il numero di scelte che vengono proposte all’unanimità; 2) allargare la sfera a nuove “cooperazioni rafforzate” tra Stati; 3) finanziare in comune nuovi investimenti in “beni pubblici europei” (*).

Nessuna di queste può davvero dirsi una scelta nel solo campo economico. Ciò è evidente per le prime due che coinvolgono quasi soltanto cruciali aspetti “costituzionali” e istituzionali dell’Unione. Proporre di superare il principio di unanimità nelle decisioni suggerisce di superare lo stadio iniziale, l’infanzia delle Unioni, in cui grazie ad esso si vuole perseguire lo scopo di non sacrificare le legittime esigenze dei singoli Stati e salvare le loro specificità. Alla lunga il principio diventa paralizzante, come è oggi tragicamente il caso anche delle Nazioni Unite (ONU) nel contesto delle guerre in atto. Il principio di unanimità favorisce e di fatto ha favorito una gestione inter-governativa rispetto ad una comunitaria. Poiché però il superamento di tale principio richiederebbe il cambiamento del Trattato iniziale, si prospetta – a mio avviso più per cautela politica che per vero e proprio pragmatismo come molti indicano – l’idea che gruppi di paesi possano organizzare progetti comuni ai quali altri a loro volta possono aderire o non. I Trattati Europei già prevedono, peraltro, progetti comuni limitati a sottoinsiemi di paesi. La novità sta semmai nell’idea di ampliare le possibili aree progettuali oltre quelle inizialmente previste. Questo consentirebbe di non bloccare l’intero progetto europeo anche se con qualche sacrificio dello spirito federativo e nella efficacia delle azioni intraprese. Anche qui si avverte nella proposta più prudenza politica che pragmatismo. Infine, finanziare nuovi investimenti a livello europeo significa voler mettere in comune le nuove risorse per nuovi progetti. In buona sostanza, mettere in comune il debito, quel debito che è necessario a finanziarli. Questa è una scelta tutta politica: in nessun testo di economia si può trovare la ricetta su quanto allocare in risorse disponibili a progetti comuni.

Tutto quanto sopra richiede, palesemente, scelte politiche e poi operative a livello comunitario e non di singoli paesi. Il terzo ed ultimo punto – finanziamento di debito comune – può trovare sviluppo lungo una falsariga già esperimentata, non casualmente, ma solo in parte, con il Next Generation EU e i Pnrr (che però, paradossalmente, con la loro prevedibile incompleta realizzazione entro la scadenza, stanno fornendo argomenti a chi vuole mettere nel cassetto il Rapporto!). Scorgo nel Rapporto non tanto un’idea di completamento/rafforzamento di una Europa intesa come mercato comune di libera circolazione di persone e merci – che tipicamente tende (ed ha teso) ad essere dominato e ad avvantaggiare i concorrenti più forti (nel caso Germania e Francia) – ma i lineamenti di un progetto politico sanamente federativo. Insomma, l’obiettivo politico è di passare da un accrocco di paesi tenuti insieme dal mastice degli interessi, che li connette tra di loro, ma non li unisce davvero dal punto di vista di una condivisa visione valoriale, culturale e politica, alla formazione di una vera e propria Federazione: dall’Unione Europea, così com’è oggi, agli Stati Uniti d’Europa.

Il suggerimento di abbandonare il principio di unanimità è la pre-condizione a questa opzione come punto programmatico di arrivo, come processo storico di maturazione costituzionale e politica. Ciò che fondamentalmente ora si vuol mettere in comune non sono i mercati e le relative transazioni economiche, quanto le risorse tutte, in particolare la capacità o spazio di manovra e di spesa che solo la scala europea rende possibile, superando lo stato attuale caratterizzato da troppe barriere e regole nazionali speso non condivise. Questo riporta allo spirito iniziale dell’Europa: l’UE nacque con i Trattati di Roma del 1957, oltre che per evitare nuove guerre fratricide, anche dall’umiliazione subita da Francia e Regno Unito nella crisi di Suez del 1956, e dai carri armati sovietici a Budapest dello stesso anno; nasceva cioè dalla consapevolezza che da soli i paesi europei non avevano alcuna possibilità di resistere alle potenze mondiali che stavano crescendo. Gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, allora; oggi gli Stati Uniti e la crescente Repubblica Popolare Cinese. Il postulato del Rapporto è: solo la scala europea può permettere all’UE di “competere” ad armi pari in questa realtà mondiale, dove si confrontano in campo politico ed economico un gruppo di paesi sviluppati guidati dagli USA, ed un gruppo di paesi meno sviluppati guidati dalla Cina.

Il cuore della proposta non è dunque quello economico-finanziario dato da quegli 800 miliardi da stanziare annualmente in debito comune indicati nel Rapporto. Questo è l’osso sul quale la grandissima maggioranza dei commentatori, anche in Italia, si è subito gettata. Soffermarsi su questo singolo aspetto e dato non può non fornire una visione rattrappita e miope della proposta complessiva e può addirittura portare al suo rigetto. Francamente non mi pare che vi sia una propensione ideologicamente favorevole a politiche di deficit e conseguente debito pubblico europeo. Si tratta di proposta di sano realismo: “senza lilleri un si lallera”. La dimensione degli impegni è tale però da richiedere un impegno comune in debito. L’UE attualmente ha una moneta unica ma non ha capacità fiscale indipendente dalla volontà dei singoli Stati.

Il Rapporto in realtà prende le distanze, e potrebbe anche essere letto come, da una parte, un atto di accusa, delle politiche ottusamente neo-liberiste care a certi quartieri europei, ma, dall’altra, anche di quelle confusamente sociali, in quanto spesso debordanti in altri campi, che permeano l’attuale impalcatura europea di politica economica. Esso dice semmai che SE l’Europa desidera avere un suo ruolo non marginale nel contesto “globale”, contesto in cui campeggiano, in primo luogo, due colossi spregiudicati in politica ed economia come Usa e Cina (che vanno vieppiù strutturando istituzionalmente le rispettive aree di influenza) e, in secondo luogo, intense evoluzioni tecnologiche, da una parte, e insidiosissime tendenze demografiche, interne all’Europa stessa (calo demografico) ma anche di natura geo-demografica (movimenti migratori); SE in questo quadro essa vuole darsi una sua soggettività, una identità politica prima ancora che economica occorre disegnare, per una miglior integrazione foriera di effetti di scala, tutto un complesso di riforme dei sistemi, anche di difesa, insieme a quelli non meno importanti riguardanti i meccanismi istituzionali, lo snellimento delle procedure decisionali per renderli più funzionali ed efficaci (basti pensare anche soltanto al singolare principio di rotazione della Presidenza del Consiglio Europeo che fa sì che ogni legislatura abbia due presidenti!), i mercati dei capitali, una politica industriale consapevolmente adottata.

Non si può nemmeno lontanamente credere che in campi quali la transizione ambientale e climatica, la digitalizzazione, i sistemi di acquisto e fornitura di energia, le tecnologie innovative e ultima – ma non per ultima – la difesa, i progetti necessari siano concepibili e soprattutto finanziabili a livello “locale” o di singoli stari, od ancor più ottimisticamente che siano a costo zero. La gran maggioranza dei progetti di investimento riguarda “beni pubblici” che richiedono progettazione, finanziamento ed esecuzione a scala europea. Un solo esempio è, tra i molti, quello delle reti energetiche ed in particolare le interconnessioni che, assicurando l’integrazione dei sistemi regionali, portano alla riduzione dei costi energetici per le imprese e le famiglie oltre a garantire una maggiore autonomia in tempi normali e resilienza in quelli di crisi. Per raggiungere una vera e propria Unione dell’energia occorrono decisioni su materie come la pianificazione, sull’approvvigionamento, sul finanziamento e sul controllo dell’insieme, tutte materie difficili da coordinare in assenza di una visione e di un accordo profondamente comune. Il Rapporto Draghi sollecita, anche con la forza degli esempi, a mettere risorse in comune su progetti di investimento in “beni pubblici a livello europeo” per aumentare la capacità di produrre e innovare e poter essere parte attiva nel quadro mondiale del futuro.

In estrema sintesi, non mi pare che si metta il carro (dell’economia) davanti ai buoi (decisioni politiche). V’è semmai una qualche venatura di (illuministico?) centralismo nel complesso, e forse anche di quel tipo di interventismo ordo-liberale caro a certi quartieri del centro dell’Europa. Un giudizio più meditato potrebbe però essere che in questo Rapporto l’economia è presa, tra tutte le discipline sociali, come la più strumentata ed in grado di trovare soluzioni operative ed efficaci a problemi economici e sociali molto complessi, ma nella consapevolezza che ciò può fare solo dopo che la Politica li abbia in qualche modo sviscerati e democraticamente risolti.

Assegnare alla Politica questa primazia è già da solo un valore molto alto. L’idea è quella di una Europa di paesi che la smettono di essere rivali in molti campi, in concorrenza economica e commerciale tra di loro e, a tal fine, puntano sulla condivisione delle loro risorse tutte in uno spirito di cooperazione per collocarsi adeguatamente nel mondo moderno (che è quello che è, senza illusioni). Resta tutto da vedere se il progetto, pur sempre discutibile ed emendabile, sarà accolto nella sua interezza o se, come appare più probabile, permarrà comunque come insieme di linee guida privilegiate che informeranno l’azione della Commissione che governerà in futuro. Ma potrebbe anche subire uno dei seguenti possibili sviluppi e utilizzi: venir rigettato in toto; cadere via via nel dimenticatoio; vedere scelti i progetti che comportano il minore uso di risorse comuni o, peggio ancora, vedere assecondata una politica di “cherry picking” in base alla quale ogni paese “coglie” la ciliegina che più gli aggrada. Tutte queste alternative sono embrionalmente presenti nelle reazioni al Rapporto registrate fin qui. Le prime porterebbero, secondo Draghi, a “lenta agonia” dell’Europa tutta; le ultime segnerebbe il degrado dell’Europa da accozzaglia di politiche per i mercati a mercato delle politiche.

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(*) NOTA A MARGINE SUL CONCETTO DI BENE “PUBBLICO”
Le virgolette stanno ad indicare che l’espressione non va intesa nel significato ordinario e più comune, cioè di bene o servizio offerto direttamente o in qualche modo e misura supportato da ente pubblico. Non v’è qui connessione automatica tra “pubblico” e pubblico, tra “bene pubblico” e settore pubblico. Un esempio molto chiaro di bene “pubblico” è uno spettacolo di fuochi di artificio: esso può definirsi “pubblico” non perché è offerto da un ente pubblico (come nel caso del ben documentato post di LINO BIONDI “I fuochi di Santa Croce” su questo sito), bensì perché il suo godimento da parte di uno spettatore non impedisce o diminuisce quello di altri. Ma spesso è il “padre della sposa”, od un gruppo di amici per festeggiare, ad offrirlo con lo stesso identico risultato. La natura giuridica di chi lo pone in essere non è rilevante al fine di qualificare un bene come ”pubblico”. Il bene è costituito dallo spettacolo, non dai singoli fuochi. Per esemplificare in altro campo, è un sistema o rete sanitaria nel suo complesso – pubblica e/o privata – a dare sicurezza di cura ai cittadini e non il singolo letto d’ospedale o di clinica che non può essere usato se non da una persona alla volta.

In effetti, nelle nostre società molti beni “pubblici” sono forniti da privati (le piattaforme comunicative e molte trasmissioni televisive ad esempio). Molto spesso, se non tipicamente, tuttavia il settore privato tende a non finanziare certi beni o servizi “pubblici” per diversi motivi, non ultimo quello che un bene “pubblico” è spesso usufruibile senza pagarne l’onere. Ciò può rendere difficoltoso alle imprese il recuperarne il finanziamento e la manutenzione attraverso i ricavi dalle vendite. I beni “pubblici” (puri) sono il paradiso degli scrocconi.

L’espressione ” bene pubblico europeo” è poi adoperata dagli economisti per riferirsi ad un prodotto o servizio di cui tutti i paesi beneficiano, ma che per la scala progettuale e/o la dimensione dell’impegno finanziario richiesto e/o gli effetti di ricaduta e/o la natura strategica di esso ed altro motivo nessun paese è in grado di porre in essere da solo. Ma non sempre esiste una completa coincidenza degli obiettivi da raggiungere, le ricadute positive talora privilegiano alcuni paesi rispetto ad altri e così via, cosicché il tutto finisce da ultimo con incidere sul ”quantum” se non addirittura sulla disponibilità al finanziamento. Chi abbia una qualche esperienza di vita in un “condominio” di abitazioni può capire al volo.

I beni” pubblici” – sia di iniziativa pubblica che privata – sono posti in essere per soddisfare bisogni fondamentalmente collettivi. La storia e la documentazione statistica mostrano che i Paesi o le Unioni Politiche che, come scelta politica prioritaria, usano le loro risorse in modo adeguato per soddisfare questi bisogni delle loro popolazioni risolvono, anche, se non del tutto, le esigenze di mobilità sociale, equità distributiva e maggiore sicurezza interna ed esterna.

Va anche rimarcato il dato di fatto che, a seguito di qualsiasi spesa pubblica o comune per finanziare beni “pubblici”, i mercati tornano comunque a dominare il campo in quanto essa inevitabilmente rifluisce sulle imprese di molti comparti anche indirizzandone la produzione verso quei beni (o parti di essi) che vanno a costituire il bene “pubblico” propriamente inteso. Ciò non sempre è messo in adeguata evidenza, anche se potrebbe contribuire a chiarire incomprensioni e sminuire resistenze.

Foto di freestocks.org

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3 Commenti

  1. Caro Paolo,
    a leggere quanto scrivi c’è solo da imparare e condividere, posso solo ricordare a sostegno della necessità di una gestione fiscale comune la circostanza che le nazioni europee hanno delegato all’unione la propria sovranità monetaria (salvo poche eccezioni). Per contro Cina e Stati Uniti ed altri paesi mantengono la loro sovranità ben salda. In effetti è difficile amministrare il debito comune se non si rende comune anche la gestione centrale della fiscalità (ma questo ce lo siamo già detto).
    Per altro verso sono convinto che il cammino per l’Europa sia lento e faticoso: sono troppe e troppo diverse le storie che hanno fondato e sorretto la nascita degli stati nazionali. Gli stati che compongono l’USA hanno un’origine più o meno uniforme: pionierismo, mobilità, distruzione dell’etnie locali e via dicendo, fattori tutti che li accomunano e rendono possibile l’idea di un’unica big nazione. Lo stesso può dirsi della Cina che mi è sempre apparsa come un’unica sterminata comunità.
    Le nazioni europee saranno ancora a lungo legate al loro passato, ci vorranno più generazioni per far cadere l’oblio sulle differenti origini.
    Spero di sbagliarmi e rimango ottimista.
    Alberto Varetti

  2. Certo, il cammino per l’Europa è e sarà lento e faticoso”, come tutti i processi della Storia. Auguriamoci non doloroso. E che abbia ragione Jean Monnet che già dal 1950 aveva in mente un progetto di idea federale: “L’Europa sarà forgiata nelle crisi e sarà la somma delle soluzioni adottate per queste crisi”. Senza ironia di sorta, le condizioni esistono tutte dopo la crisi finanziaria e del debito sovrano, la pandemia di Covid-19, la guerra in Ucraina e in Medio Oriente…..

  3. la lettura dell’articolo di Paolo Mariti è stata così intrigante che mi ha costretto a guardare il Rapporto Draghi più da vicino, ma solo una scorsa volante rispetto a quanto sarebbe minimamente necessario. E questo per cogliere appieno quanto la sua lettura sia stata quella di cogliere gli aspetti del Rapporto che spingono verso una Unione Europea più concreta. Mi riferisco espressamente ad aver enucleato le tre proposte centrali. Draghi non fa una prospettiva accademica, ma risponde alla Von Der Leyen e per essa alle massime strutture della Comunità Europea ma anche ai responsabili delle politiche degli stati membri, per dirci chiaramente dove vogliamo andare e soprattutto come. Molto interessante è la necessità di inventare strade nuove aggirando l’unanimità prevista dai Trattati costitutivi per poter perseguire scelte urgenti rivolte del bene pubblico di tutti i cittadini dell’Europa. E questo espresso nel Rapporto con la delicatezza che solo Draghi sa esprimere.
    A riprova di quanto sia necessario avere una visione comune tra gli stati più operativa e unitaria riporto un esempio ricavato da alcune scelte fatte dal governo federale degli USA. È da un po’ di tempo che seguo su di un report settimanale Smart Brief dell’associazione americana NEMA (National Electrical Manifacturers Association) le iniziative federali rivolte all’ampliamento delle reti elettriche degli stati dell’unione. Naturalmente è questo il primo passo che un paese deve compiere per il processo di decarbonizzazione: non si può passare all’elettrico se prima non si è in grado di trasportare l’energia elettrica alla massa futura dei fruitori. Dalla prima fase dello stanziamento di risorse economiche in miliardi di dollari federali agli Stati che investivano sull’aumento delle linee ad alta tensione. Il 3 ottobre il DOE (U.S. Departement of Energy) ha stanziato 1,5 miliardi di dollari per quattro progetti per la costruzione di linee interregionali a lunga distanza che riporto in foto.
    Al di là dello stanziamento, che ovviamente è poca cosa, la singolarità che mi ha colpito è che i problemi della distribuzione energetica hanno una scala maggiore singoli stati. Anche un osservatore come Rob Gramlich, presidente di Grid Strategies americana ha detto che il governo federale è pronto a essere uno dei primi finanziatori chiave per queste linee su larga scala e a fornire analisi delle future connessioni alla rete. Mi sembra che nella forma oltre che nella sostanza sia questa una delle vie che possano spingere gli stati della Comunità Europea a rapporti più stretti per giungere finalmente ad una federazione politica.
    Non so se il rapporto verrà colto nella sua interezza o sarà nel migliore dei casi spezzettato, l’alternativa, se messo nel cassetto o depotenziato, sarà quella di un graduale il declino dell’Europa.

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