Continuo la prefazione al libro su Piero Del Frate cominciata con questo articolo.
[…] È stata proprio la mostra “Fra il Tirreno e le Apuane” a saldare il mio rapporto con Piero Del Frate. Come consigliere della Fondazione, in quota dell’Amministrazione Provinciale, sin dai suoi primi passi avevo avanzato la proposta di allestire una rassegna delle esperienze pittoriche fiorite in Versilia tra Ottocento e Novecento. Forse perché non riuscivo a rendere convincente la proposta, o perché, e qui siamo più vicini al vero nodo della questione, nei miei confronti vagava una certa diffidenza (ero pur sempre un fastidioso rappresentante dell’opposizione di sinistra) quel suggerimento rimaneva lettera morta. E tale sarebbe rimasto se l’avvocato Del Frate non fosse stato incaricato di presiedere la Fondazione. Non provenendo dalla scena politica non aveva sperimentato la mia urticante aggressività polemica (detto tra noi: a conti fatti quanto fiato e quanta energia sprecati) e così non aveva motivi per ostacolarmi. Di questa sua disposizione, che era l’espressione di una grande apertura umana, feci presto ad accorgermi ed avviai così un rapporto che si sarebbe consolidato al punto da assumere l’intensità di un legame familiare.
Non esagero. Conservo ben custodito il ricordo delle parole che Piero mi affidò la mattina che eravamo a Roma per la commemorazione al Senato di Carlo Ludovico Ragghianti. Al termine della manifestazione uscimmo per città e Piero volle che lo seguissi per una visita ai negozi dell’eleganza. Ci dirigemmo per via Condotti e per via Frattina e Piero avvertì da come lo seguivo e lo guardavo quando entrava in quei decantati luoghi dello stile c’era della soggezione che si univa alla soddisfazione di aver trovato un amico che mi guidava liberandomi di quella insicurezza, di origine bargo-garfagnina che mi portavo dietro: allora, prima che mi decidessi ad entrare in un negozio del lusso potevo far passare minuti che sembravano non finire e poi, quasi sempre non ne facevo di nulla. Un po’ divertito e forse anche commosso per questo mio comportamento Piero se ne uscì con queste parole: “Sereni lei mi viene dietro come un bimbo” e sul suo volto appariva quel lieve sorriso, dolce e affettuoso che era un po’ il suo segno distintivo.
Parole e sorriso che non ho mai dimenticato, come non ho mai dimenticato il partecipe calore con il quale in una piazza San Michele già avvolta dalle ombre della sera mi comunicò di aver saputo dall’onorevole Maria Eletta Martini che potevo essere tra i vincitori del concorso per professore Associato. In quelle parole avvertii una soddisfazione che rivelava un’intensa, sincera, generosa amicizia.
La tormentata ed esaltante vicenda della ricordata mostra “Fra il Tirreno e le Apuane” è fitta di questi episodi. Capii subito che la presidenza Del Frate le apriva la strada. Dotato di una buona cultura, competente appassionato delle cose belle, assiduo frequentatore, con la cara moglie Paola, di mostre, rassegne ed esposizioni, attento alle offerte che il mercato offriva (tra gli ultimi suoi acquisti un Nomellini di ottima fattura) era ben consapevole di dover sottrarre la Fondazione alla condizione di inanità. Era convinto che il suo compito fosse quello di mettere fine ad uno stato di cose che le stava procurando critiche raccolte anche dalla stampa cittadina dove apparivano pungenti vignette che si divertivano con il fin troppo facile gioco di parole Fondazione-Affondazione. Malumore che lambiva lo stesso organo dirigente della istituzione e si manifestava nel voto negativo espresso da alcuni consiglieri quando erano chiamati ad approvarne i bilanci.
Di questa nuova situazione, che vedeva alla guida della Fondazione la personalità che l’avrebbe riscattata, colsi subito la prospettiva e stabilii con l’avvocato Del Frate una frequentazione quasi quotidiana. Lo andavo a trovare nel suo studio in via Vittorio Emanuele, che già conoscevo per il fatto che vi aveva lo studio anche l’avvocato Giuseppe Bicocchi che, con la generosità che lo caratterizzava, mi aiutava ad emendarmi di tante asprezze ed a vincere il male oscuro che mi tormentava.
Visite terapeutiche quelle compiute negli uffici via Vittorio Emanuele. Con Piero procedevamo aggiornando e precisando quella che fino ad allora era poco più di una suggestiva idea. Da ogni nostro incontro prendeva corpo la mostra che doveva dar conto della straordinaria ricchezza di quella stagione d’arte, cultura, socialità che aveva accompagnato l’incedere di primi passi del Novecento per giungere fino al lacerante dramma della guerra europea. Ci rendevamo conto, e questa consapevolezza se ci sgomentava alla fine agiva da sprone, che un’operazione del genere fino ad allora non era stata sperimentata: si trattava, come seppe condensare con un’appropriata definizione Pier Carlo Santini, di una “rassegna di temperie culturale” che doveva riunire le testimonianze e le manifestazioni di quell’accumulo di ansie di rigenerazione etico-spirituale che si era concentrato “fra l’Alpe ed il Mare”.
Il titolo della mostra ci venne durante il viaggio che facemmo a Firenze per stabilire gli accordi con la casa editrice Artificio alla quale venne affidato l’allestimento della mostra. A quel punto, eravamo nella primavera del 1990, il progetto era steso in ogni sua articolazione che dava esecuzione alla idea che l’aveva messo in movimento: presentare un catalogo ragionato degli artisti che avevano operato in quel lembo di territorio, individuando la comune matrice culturale che li aveva uniti nella sensazione di vivere l’incantesimo del “ritorno all’Eden” ed al tempo stesso fare emergere la mappa dei luoghi nei quali lo spirito dell’incantesimo si era rivelato nelle opere d’arte, nelle prove letterarie, nelle composizioni musicali e si era così propagato che se ne poteva trovare consistenti tracce nella manifestazioni della radicalità antagonista e nella panica esaltazione di vitalismo delle radunate popolari.
Il senso e l’originalità dell’operazione seppe coglierli Manlio Cancogni che affidò la sua partecipe condivisione con i motivi di quella mostra nell’articolo che le dedicò sul “Giornale” di Montanelli: “La mostra è una vera sorpresa: è infatti raro che una «collettiva» abbia come questa una così decisa unità, una così decisa giustificazione. Sapevamo che Ceccardo, Viani, Puccini, Nomellini, Chini, Pea, Magri, Salvatori e tanti altri poeti, pittori, musicisti, architetti, politici, mescolati a pittoreschi perditempo, vissero e operarono nella stessa epoca (il trentennio fra la fine del secolo e il primo dopoguerra) avendo infinite occasioni d’incontrarsi e stare insieme negli stessi luoghi (la Versilia e dintorni) mai però essi ci erano apparsi così solidali (ferme restando le differenze personali) così parte della stessa famiglia, della stessa terra, dello stesso ambiente”. Un altro significativo apprezzamento venne dall’intervista che Mario Tobino rilasciò a “Repubblica”. Quei due autorevoli interventi furono accompagnati da una folta serie di articoli che dalle pagine culturali dei quotidiani e dei settimanali passavano alle riviste specializzate. L’addetta stampa della mostra, Cristina Pariset, che Artificio ci aveva procurato aveva lavorato proprio bene.
La chiave che avevo proposto usciva accreditata dai giudizi che venivano formulati, così univoci da poter sembrare un coro: “Fra il Tirreno e le Apuane” aveva segnato una svolta, aveva aperto un orizzonte di indagine ed aveva spianato un campo di riflessione da esplorare e approfondire. Aveva consentito la scoperta di un filone aureo che impegnava a continuare l’opera di scavo. Proprio perché consideravo quelle valutazioni che le firme più autorevoli della critica avvaloravano come una sorta di consacrazione del lavoro sino ad allora svolto ho fin da allora riconosciuto il ruolo decisivo dell’azione condotta da Piero Del Frate con l’obiettivo della riuscita della mostra: oggi che, per effetto dei successi di Sinner e Paolini ci siamo un po’ tutti familiarizzati con il tennis, siamo perfettamente in grado di capire cosa intendevo e cosa intendo quando identificavo il ruolo di Piero nella Mostra a quello del “capitano non giocatore” della squadra che affronta la Coppa Davis; non scende in campo, ma dipende da lui, dal suo equilibrio, dalla sua saggezza, dalla sua parola, dalla sua pazienza, dalla sua lungimiranza se la squadra vince.
Con “Fra il Tirreno e le Apuane” è proprio andata così e per aver partecipato con la duplice veste di consigliere della Fondazione e di membro del Comitato Scientifico che curava la mostra potrei citare decine di episodi in cui il “capitano non giocatore” interveniva per appianare contrasti, per smussare gli angoli, per placare spiriti bollenti, garantendo così all’operazione di superare scogli che sembravano fatali, di resistere a marosi che potevano farla naufragare.