RAGIONI E SENTIMENTO DI UN LIBRO (1/3)

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In occasione dell’uscita del libro uscito per il trentennale della morte dell’avv. Piero Del Frate (edito da Maria Pacini Fazzi per conto della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca) ho scritto una riflessione che voglio qui riportare (suddivisa in tre parti).

Ogni qual volta che ho inviato a Mario Isnenghi i testi degli studi dedicati alle esperienze artistiche maturate in quella porzione di terra che corrisponde all’ultimo lembo nord-occidentale della Toscana, il professore mi ha risposto con la sollecitazione a riunire quei lavori in una pubblicazione che consentisse di apprezzare il senso dell’operazione culturale alla quale mi ero impegnato. Riunire in un volume quei saggi sparsi per tante pubblicazioni era come un passo obbligato se volevo far emergere quelle connessioni che avevano dato una identità, di difficile se non impossibile rinvenimento lontano dalla regione tirrenico-appenninica, dove per una straordinaria serie di coincidenze, tutt’altro che casuali, tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del secolo successivo, avevano trovato ospitale dimora i riconosciuti influencer (mi si perdoni questo fin troppo abusato brutto termine) della sensibilità dell’epoca: D’Annunzio, Pascoli, Puccini.

Della validità della sollecitazione rivoltami da Isnenghi non avevo dubbi. Non li avevo per la stima che gli porto. Una stima che nata dall’incontro, ormai più che cinquantennale con la sua opera (il suo libro “Il mito della grande guerra”, uscito da Laterza nel 1970, fu per il giovane studente quale ero un benefico incoraggiamento a impegnarsi negli studi storici) è stata poi corroborata dalle manifestazioni di amicizia delle quali mi è stato prodigo. Anche quella sollecitazione che non si stancava di ripetermi ne era una prova ed io era ben consapevole che non potevo disattenderla. Ci pensavo e ci tornavo a pensarci soprattutto quando dovevo verificare come, per via della loro dispersione quei miei pioneristici studi, erano spesso vittime di un saccheggio che accuratamente evitava di indicare il debito con il mio lavoro.

Ed allora, scottato da queste offese ad un legittimo orgoglio, ritornavo a sentire la sollecitazione di Mario, sollecitazione che poteva anche giungermi per telefono a concludere i nostri commenti, piuttosto amari, sul deludente andamento del “Torino”. Ma non ne venivo fuori. Rimandavo di settimana in settimana, di mese in mese l’assunzione dell’impegno ad avviare l’operazione che doveva portare a dare raccolta organica ad un lavoro di una vita.

Non che non vi pensassi. Non che non facessi qualche passo in quella direzione. Credevo di averne fissato il titolo, avevo approcciato la sua struttura, avevo individuato il filo della sua narrazione, ed avevo provato a scegliere i testi che dovevano darle ragione. Testi vecchi di anni ai quali si aggiungevano opere di più fresca produzione che, messi l’uno di seguito all’altro fornivano un panorama coerente con l’impostazione genetica del volume: il racconto, per parole, per immagini e per esperienze di una irripetibile vicenda d’arte e di umanità che, se pur racchiusa dai confini di un breve territorio situato ai margini della grande scena italiana, ha intercettato, ha elaborato ed ha diffuso motivi, suggestioni, ansie e speranze che hanno percorso i lunghi anni dell’Inquietudine.

Ma oltre non andavo. Ed ogni volta che riprendevo a tessere mi accorgevo che la tela era sempre a quella fase iniziale. Non facevo quei passi in avanti che la trasformassero da velleitaria nebulosa in solida costruzione e spingessero il progetto lungo il cammino che doveva darle concretizzazione. In poche parole, ma bastanti a intendere dove mi trovavo, mi dibattevo in una risacca che se poteva darmi l’illusione di essermi mosso in avanti assai presto mi riconduceva al punto di partenza. Insomma non ne uscivo ed avrei senz’altro finito di accantonare quel “libro da fare” nel vasto deposito dove da tempo se la passano tanti loro fratelli.

Per poter spezzare questa neghittosa spirale c’era bisogno di uno scarto, c’era necessità di una motivazione forte e ineludibile che si presentasse con l’impronta di un cogente appuntamento. Con me funziona così: più volte la scadenza di un anniversario mi ha sottratto alla usata pratica dei rimandi e mi ha spinto a radunare volontà ed energia per dare finalmente corpo compiuto a programmi che accompagnavano e riempivano i miei giorni.

È successo così anche per questo volume che viene pubblicato per onorare la memoria del trentesimo anniversario della scomparsa dell’avvocato Piero Del Frate, avvenuta il 27 luglio del 1994. Ho iniziato a pensarci quando, durante una visita al suo negozio nel periodo dei saldi invernali, Umberto Tenucci, mi ricordò che nell’anno appena iniziato ricorrevano trenta anni dalla morte dell’avvocato Del Frate, e mi sollecitò a farmi portatore presso la Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca, della quale era stato il primo presidente, a promuovere una iniziativa che ne rievocasse la preziosa opera svolta e ne rammemorasse la personalità. Degna di figurare tra i lucchesi illustri.

Che quelle parole mi consegnassero non solo l’incarico di tramite, ma comportassero per me ben altro impegno lo intesi fin da subito e del resto fu lo stesso amico Umberto a ricordarmi che già in passato io avevo provveduto a stimolare la Fondazione a impegnarsi per onorare l’avvocato Del Frate. Nel 1995, sotto la presidenza di Giancarlo Giurlani, d’intesa con Vincenzo Da Massa Carrara, che allora guidava la Cassa di Risparmio SpA, il primo anniversario venne degnamente ricordato con la pubblicazione di una raccolta di poesie di Giovanni Pascoli. Quel libro, oggi introvabile, si intitolava “Storia di Rosa” e significativamente si apriva con i versi di un altro poeta, Giuseppe Bertacchi, che ne sottolineavano l’intenzionalità commemorativa affidata alla celebrazione delle opere buone ed alla virtù della memoria.

Quei versi si ritrovano anche in questo volume che è l’esito della sollecitazione ricevuta e trasmessa. Sollecitazione che non ha faticato a trovare accoglienza presso l’attuale presidente della Fondazione, Marcello Bertocchini, che l’ha adottata ed ha immediatamente avviato l’iter della sua realizzazione, individuando nella casa editrice Pacini Fazzi il più valido soggetto attuatore. Dato a Cesare quello che è di Cesare e posta in evidenza, come meritava di fare, la partecipe sensibilità del presidente Bertocchini mi preme anche ricordare che un attivo sostegno alla mia iniziativa è venuto da Arturo Lattanzi e da Alberto Varetti, che di Piero furono amici ed ognuno per suo conto, mi ha incoraggiato anche nella prima azione che ha aperto le manifestazioni in onore di Piero Del Frate.

Mi riferisco alla redazione di una pagina speciale, fatta pubblicare dai due quotidiani lucchesi, “La Nazione” e “Il Tirreno” nel giorno dell’anniversario, sabato 27 luglio. “La Nazione” recava questo titolo complessivo: “Pier Luigi Del Frate. Trent’anni senza un ‘lucchese doc’ dal grande senso civico”, e le faceva eco “Il Tirreno”: “Del Frate, protagonista discreto”. Impreziosite da una serie di immagini che documentavano i momenti  più importanti dell’attività di Piero Del Frate come l’inaugurazione della mostra “Fra il Tirreno e le Apuane”, alla quale intervenne il Presidente del Senato, professor Giovanni Spadolini. Le due pagine ospitavano il ricordo che la Fondazione Cassa di Risparmio gli aveva tributato e lo scritto che all’indomani della sua morte gli avevo dedicato.

Credo che possa trovare degna accoglienza in queste pagine e possa aiutare a meglio comprendere le ragioni di quel compito che Umberto Tenucci volle affidarmi:

Piero del Frate era un uomo sincero che ha affrontato con stile il male e la morte.
È durato un anno il calvario di Piero Del Frate: Un anno tremendo, straziante. Fitto di dolore che Piero ha saputo sopportare e vincere. Come soltanto chi è forte d’animo riesce a fare.
Appassionato della vita, la vita vera, quella delle opere buone, dei sentimenti generosi, non aveva paura della morte. La fede in Cristo, praticata con sincerità, gli aveva insegnato a non temere la fine. A non credere alla fine. Con la morte, che ci accompagna dal giorno in cui iniziamo a vivere, Piero aveva preso a colloquiare da quando aveva avuto la certezza del male che insidiava. Si erano dati appuntamento ed a quell’incontro Piero è an dato con serena dolcezza, confortato dalla veglia amorosa dei suoi cari
Il modo in cui moriamo ci dice chi siamo. Ci fa capire chi siamo stati. Piero è morto come è vissuto.
Che l’interra città lo pianga è giusto, Piero si sentiva, e lo era, un lucchese. Sentiva cioè di appartenere ad una storia, ad una cultura, ad un sistema di valori. In una parola: ad una civiltà. Questo culto civico, che era vana declamazione, bensì impegno di testimonianza, l’aveva ereditato dal padre, l’indimenticato Pio Del Frate, animatore di tante buone iniziative tese a valorizzare Lucca e la sua gente.
Piero sapeva di agire in tempi diversi, in tempi in cui, purtroppo, molto di quello spirito si è andato perdendo, sopraffatto da arroganze voraci, ambizioni ingiustificate, particolarismi mediocri e meschini egoismi. Tempi in cui più difficile era far prevalere lo “spirito di Lucca”: quel senso della comunitù, che è insieme memoria e realtà, tradizione e vicenda, quotidiano e perpetuo. Eppure in questa impresa c’è riuscito. C’è riuscito conquistando, con il suo agire, spazi e ruoli che ha saputo ben svolgere e ricoprire. Così nella professione, procurandosi un prestigio che superava i confini del nostro Foro. Così nelle funzioni pubbliche. La nomina a presidente della neocostituita Fondazione della Cassa di Risparmio di Lucca gli era venuta anche come doveroso riconoscimento di un impegno svolto per a nni cel Consiglio d’Amministrazione del nostro maggiore istituto di credito. Una delle realtà dove effettivamente la “spirito di Lucca” ha saputo fornire buona prova di sé, procurando alla Cassa del Volto Santo un primato di serietà, di affidabilità e di consistenza che la distingue nel panorama del sistema bancario toscano.
L’istituzione alla quale Piero Del Frate più si è dedicato ed alla quale più teneva, al punto da considerarla come una sua creatura era la Fondazione Ragghianti. Su mandato di Vincenzo Da Massa Carrara ne aveva assunto la presidenza quando muoveva i primi incerti passi. Armato di grande pazienza e di uguale determinazione l’aveva fatta crescere, sottraendola a quel malinconico destino che sembra perseguitare molto del fare culturale della nostra città.
La mostra “Fra il Tirreno e le Apuane” che si svolse nel 1990 fu in buona parte opera sua. E di Pier Carlo Santini che con Del Frate ebbe un ottimo rapporto di collaborazione. Per la prima volta, è il caso di dirlo, Lucca si impose all’attenzione degli studiosi e dei cultori delle arti figurative: al punto che quella esposizione, che contò migliaia di visitatori è tata adottata come modello da replicare da rassegne che si sono svolte in altre parti d’Italia.
Stessa origine e stesso esito anche per “Ruskin e l’Italia”, l’altra grande mostra realizzata sotto la sua gestione. Del Frate ebbe la grande soddisfazione di inaugurarla quando fu presentata, in prima versione, a Londra con l’intervento dell’ambasciatore italiano e di ragguardevoli personalità della cultura e dell’arte.
Se è vero, ed è vero, che “lo stile è l’uomo” Piero del Frate non aveva necessità di travestimenti: la sua era un’eleganza innata, era una dote congenita che esprimeva un’idea, un sentimento del vivere civile. Appunto quel “sentirsi lucchese” che gli faceva vedere al di là delle apparenze, lo teneva al riparo da rutilanti prosopopee , gli faceva cogliere il senso vero delle cose.
Chi lo ha avvicinato non potrà dimenticarlo. La memoria, che è il paradiso di noi laici, si è fatta più ricca per i tanti doni che ci ha regalato Piero.

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