Ravandando tra le carte della storia, un articolo di E. Lazzareschi sulla Cronaca di Lucca del 1948 ci riporta questa bella figura.
“La pregherei di consegnare al latore il fucile per me, come pure il sacco delle camicie e la gamella”. Brevi semplici e significative parole scritte dal sacerdote Matteo TRENTA il 17 aprile 1848, al Tenente Pardocchi della Compagnia dei Volontari lucchesi, alla vigilia della partenza verso i campi lombardi della Prima Guerra di Indipedenza. Erano moltissime le compagnie di volontari che si formavano per questo primo importante moto risorgimentale, durò fino al 1849. Mi piace evidenziare che tra le moltissime e disparate formazioni italiane, vi erano i Volontari Toscani e per conto loro i Volontari Lucchesi!
Il nostro sacerdote, trentenne, esile, pallido, con l’alta fronte, illuminata dal male che già doveva spegnere il giovanile entusiasmo era originario dai Monti di Villa, (1 dic.1817). Era ben noto a Lucca, dove aveva studiato in Seminario, e quindi l’Ateneo di Pisa. Conosciuto in tutta la Toscana come giornalista battagliero nelle gazzette patriottiche, educatore affettuoso della gioventù, apostolo degli asili di infanzia, amico fraterno del Giusti, del Lambruschino, dell’Aporti, del Fornaciari. I suoi scritti pedagogici, i suoi inni frementi, di ardore patrio, il suo almanacco l’Amico del Popolo, ne avevano diffuso il nome, onorato tanto quanto oggi ne è dimenticato il suo sepolcro in San Francesco a Lucca. Solo una piccola secondaria via interna a Lucca, Piazzale Kennedy riporta il suo nome. Per fortuna a Bagni di Lucca la mia amica Natalia Sereni, Bruno Micheletti e Roberto Pizzi han ben provveduto con un convegno nel 2018 a ricordarne la sua figura. A richiamarne il ricordo oggi, per dire, una volta di più del contributo del clero minore al Risorgimento sono documento prezioso le sue lettere, in parte inedite, scritte dal campo nel ’48, quando seguì la colonna Allegrini con un altro sacerdote lucchese Giambastiani, e poi quale Aiutante di campo del colonnello Giuseppe Giovannetti che doveva cadere non per piombo nemico, ma a seguito di un alterco con un suo sottufficiale granatiere al ritorno dalla guerra. Con il Trenta partirono diversi studenti lucchesi, universitari a Pisa, con i loro docenti Giorgini, Mussotti, Puccinotti, Pilla che lasciò la vita combattendo; partirono gentiluomini lucchesi quali Nicola Guinigi, studiosi come Salvatore Bongi, artisti come Luigi Norfini, cantando all’ombra dl Tricolore offerto dalle donne lucchesi; cantavano l’Inno del Maestro Rustici: “l’ora è giunta, già batte il tamburo” che echeggiò sotto le mura di Mantova, di fronte al nemico a Montanara, a Curtatone, a San Silvestro alle Grazie.
Il 6 maggio del 1848 il Trenta così scriveva dagli avamposti dei volontari comandati da Eugenio Pelosi, al suo amico Carlo Minutoli.
“…Io mi sento soldato, soldato! Le fatiche e i disagi non mi sgomentano; della morte mi rido, il fischio delle palle non mi fa paura. Non credevo che la mia salute potesse reggere; ma pur regge. Le lunghe marce, l’acqua, l’umido, il cattivo cibo, la mancanza di ogni comodo, il giacere in terra, dormire a cielo scoperto, son cose che ho provato e provo, io di salute così delicata, senza nutrire il minimo deperimento”.
Il suo battesimo del fuoco fu nella giornata del 13 maggio preso Montanara, quando i tedeschi (gli austriaci) furono respinti con un attacco alla baionetta, come ricorda un altro valoroso toscano, Gherardo Nerucci, nelle sue memorie del battaglione universitario toscano. In quelle giornate il Trenta meritò la Medaglia d’Argento al Valore, conservata con la sua spada presso l’Archivio di Stato di Lucca.
Sempre agli ordini di Giovannetti, il Trenta prese parte poi all’epica giornata di Curtatone (questi due nomi, Curtatone e Montanara, sono ben impressi nella memoria dei non diversamente giovani lucchesi; era infatti la caserma sede del Distretto Militare di Pisa, dove andavamo a fare le visite di leva). In questa battaglia quattromila toscani tennero fronte per ben sette ore ai ventimila austriaci di Radetsky. Morirono in quella sfortunata battaglia tredici giovani lucchesi. Nella lettera di risposta del Giusti al Trenta leggiamo: “Non puoi credere il forte contrasto che era nel cuore di tutti, i primi giorni del fatto di Curtatone e Montanara. Da un lato la gloria acquistata al paese dalla vostra meravigliosa sventura, dall’altra il dubbio per le tante vite dilette: le voci ci percuotevano di timore e di stupore, il pianto e la gioia si astenevano o si combattevano e si soverchiavano a vicenda. Da quelle martellate potenti la Toscana si rialzò a nuova vita, e per la prima volta sentì il tocco benefico di un dolore che esalta e purifica”.
Durante di Ozi di Brescia a seguito della ritirata e dello scioglimento del battaglione universitario, scriveva all’altro amico del cuore Luigi Fornaciari: “Se ella mi vedesse si scandalizzerebbe di me; vestito a soldato, con la barba e i baffi lunghi, con il fucile in ispalla, col sacco indosso, e la sciabola al fianco, insomma tutt’altro uomo di quello ch’io fui, sulle prime non mi riconoscerebbe, e quando mi avesse riconosciuto direbbe: “È egli questo un Ministro di Dio, di pace? Son questi gli studi, le arti, le occupazioni dell’unto del Signore? E levata a Dio la vana speranza che tutto si ricomponesse “presto e bene” concludeva: “Quando le cose saranno pacificate, anch’io (se la scampo) rientrerò nell’ordine, e deponendo le spoglie guerriere, ripiglierò, a Dio piacendo, l’umile e modesta tonaca sacerdotale”.
Il carteggio del Trenta prosegue con la narrazione degli episodi che accompagnarono la triste ritirata, tra i quali il più funesto, l’uccisione, già ricordata del colonnello Giovannetti, nefasto delitto commesso da un suo milite indegno, un sergente pistoiese, Bartolomeo Capecchi, che per “viltà codarda degli uomini de’ tempi”, come scrisse Giovani scorza, non venne punito. Succede…
In altre lettere accenna alla vergognose diserzioni dal campo, anche “agli ozi spaventevoli” in cui poltrivano le truppe, al suo desiderato ritorno in patria per punire gli ignavi e istaurare un nuovo ordine di giusto governo.
“Se torneremo noi – scriveva il pittore Michele Ridolfi che doveva tramandarne le effige – discorreremo in altro modo! Guai ai deboli”.
Non volle cedere alle avversità. Raggiunto l’esercito piemontese, prese parte alle campagne di Sommacampagna e di Custoza, il 24 e 25 luglio ’48, “due fatali giornate – come scrisse – che bastarono a far perdere tutto il guadagnato. Non però la causa è perduta!”
Al contrario, la campagna eroica era terminata e la guerra davvero perduta.
Al suo ritorno a Lucca, dolorante nella persona, e più nello spirito, infranto ma non vinto nelle sue speranze, soffrì amarezze più gravi da parte della Autorità ecclesiastica, che gli impose la penitenza di un ritiro alla Badia di Firenze. Concluse poi la vita negli studi, nella scuola, trovando solo riposo nella morte il 19 marzo 1856.
Vittorio Lino Biondi
Grazie Vittorio per averci informato su la storia di questo personaggio.