In queste settimane hanno tenuto banco le nuove polemiche sul presunto revisionismo di qui l’Italia sarebbe potenziale preda.
In particolare, dopo lo scivolone su via Rasella, è ancora il presidente del Senato ad aver dato motivo di polemica avendo detto, peraltro in una conversazione privata, che la parola “antifascismo” non è presente in costituzione. A questo si è aggiunta l’uscita infelice sulla “sostituzione etnica” da parte del ministro Lollobrigida che ha poi per certi versi peggiorato la sua posizione dichiarando di non conoscere l’origine dell’espressione che utilizzava. Polemiche che sono state più facili anche per via delle inopportune uscite sul “busto di mussolini lasciatomi da mio padre” (del presidente del presidente del senato) e dalla “mano alzata” nel saluto al feretro del “camerata” del fratello a Milano.
Intendiamoci: il fascismo in Italia è stato il male in una delle sue forme più drammatiche che ha coinvolto l’anima del paese, visto che Mussolini al potere ci andò con i voti degli italiani. E il paese ha fatto, ha dovuto fare, suo l’antifascismo negli anni che seguirono la seconda guerra mondiale. Se qualche vero nostalgico esiste ancora non è certo un problema per la democrazia visto che la stragrande maggioranza della popolazione ha un’idea chiara sul tema.
Ma è un fatto che il 25 Aprile non è per l’Italia quello che il 4 Luglio è per gli statunitensi, come lamenta oggi Letizia Moratti.
Ma questo ha un perché. Ed è perché, per decenni, la sinistra ha utilizzato strumentalmente il tema della resistenza come un feudo della stessa dimenticando che i partigiani non erano solo comunisti e che l’opposizione al fascismo la fecero parimenti, e anche di più, i popolari cattolici. E l’uso strumentale della memoria porta divisioni, mai unione. Così, negli anni, non c’era un comizio della sinistra o del sindacato in cui un oratore, se era in difficoltà perché non riusciva a trovare feeling con la platea o si intorcinava nel discorso, non ricorresse ad un facile applauso con una inveterata sull’antifascismo e sulla presunta differenza morale della sinistra sul tema. Assegnando sempre e sistematicamente all’altra parte il nome di “destra”, con una invariabile connotazione dispregiativa, e definendo una equazione morale “destra=fascismo” (e, se si volesse essere un po’ polemici, si potrebbe anche ricordare che tanto il fascismo nostrano che il nazismo furono costole fuoriuscite dal socialismo: se qualcuno trova fastidioso questo accostamento è bene ricordare che non è più sbagliato che quello di legare più o meno implicitamente il concetto di destra conservatrice al fascismo).
Oggi, ma è così già almeno da cinquanta anni, il tema del fascismo ha perso il suo valore specifico, visto che non esiste un reale grumo fascista in Italia. Ciò che dovrebbe ancora rappresentare è il rifiuto dell’autoritarismo in generale e della soppressione della democrazia. Ma questo coinvolgerebbe anche un giudizio sul comunismo sovietico e cinese, sia di allora che di oggi. Giudizio che, buona parte dell’Italia di sinistra (e forse non solo) non è capace di dare. Ma a parte questo problema nella memoria collettiva nazionale, il 25 Aprile non dovrebbe essere, per il centrodestra, di imbarazzo più di quanto non lo sia per tutti noi italiani.
Eppure non è così. E il motivo è che il centrodestra è una creatura senza cultura. Il suo principale partito è nato appena dieci anni fa da fuoriusciti dell’allora tentativo, poi abortito, di fusione del centrodestra. E gli altri due partiti del centrodestra attuale sono nati negli anni ’90: uno da un imprenditore e l’altro da un circolo territoriale (peraltro con precedenti connotazioni di sinistra). Nessuno di questi attori era portatore di una specifica cultura né di governo né sociale. E i riferimenti alla cultura liberale sono sempre stati più strumentali che praticati (si veda oggi il tema dei balneari, o in passato i tassisti).
È oggettivo che il centrosinistra sia in uno stato confusionale. Particolarmente nel proporre un progetto culturale e un disegno sociale. Non solo nel nostro paese ma in generale nel mondo: il concetto di progresso lo stanno decretando i circoli di attori e influencer hollywoodiani assai più che i “pensatori” europei, e questa guida americana del pensiero della sinistra è una specie di ribaltamento culturale tragicomico. Eppure è altrettanto indubbio che il centrosinistra una qualche cultura e storia a cui rifarsi pure la abbia. Che abbia, cioè, una radice a cui provare ad attingere che possa guidarne le scelte.
Il centrodestra no. Non ha radice e, come detto, non ha storia. Non ha riferimenti che possano guidare le proprie scelte né pensatori che possano giustificarle. Non ha un progetto culturale preciso né un’idea dello sviluppo sociale definita. E questa indefinizione è il limite più grande che oggi ha. E che porta anche qualche sventurato a cercare un autolesionistico riferimento culturale in un passato che nessuno può redimere né giustificare. O porta una più significativa parte della maggioranza a fare provocazioni che poi non riescono a difendere per mancanza di mezzi comunicativi e che finiscono per rivolgerglisi contro.
Se oggi il centrodestra ha una debolezza, è il non rendersi pienamente conto dell’emergenza che la questione culturale è per questa area politica. E, forse, è già troppo tardi.