Le elezioni dello scorso week-end sono ancora fresche e le conseguenze sul sistema europeo devono essere ancora comprese: dipenderanno dalle scelte dei gruppi europei; dalle conseguenze sui governi; dalle scelte che questi faranno sulla trattativa per la nuova commissione.
Ci vorrà tempo per decifrarne le risultanze.
Intanto possiamo decifrare quello che accade sul livello italiano.
E, naturalmente, la domanda è chi ha vinto e chi ha perso.
La serie dei vincitori non può che cominciare con la Meloni. Ha confermato ed anzi aumentato lo spazio elettorale del suo partito, operazione non facile. Ha fatto un pienone di preferenze arrivando ad essere largamente la più votata di questa tornata con ben 2 milione e 350 mila preferenze e superando il record di Salvini. Non ha battuto solo il record del 1999 di Berlusconi (3 milioni di preferenze) ma lo supera nella percentuale che a suo tempo prese: Berlusconi 9,68% dei votanti, Meloni 10,04%. Altri tempi e un numero maggiore di votanti consentono (e probabilmente consentiranno definitivamente) al cavaliere di mantenere il record imbattuto.
Per trovare qualche ombra bisogna guardare dietro di lei: la seconda linea è talmente staccata da essere veramente indietro il che continua a evidenziare la relativa povertà di classe dirigente che FdI ha. Poco di cui lamentarsi nel complesso.
Il secondo vincitore è Tajani: raggiunge il secondo posto in maggioranza e il quarto posto assoluto dei partiti ad una incollatura dai 5Stelle mettendosi dietro la Lega. In effetti porta a casa anche un eurodeputato in più dei 5Stelle. Cresce nettamente anche rispetto alle ultime politiche, a dispetto della mancanza di Silvio Berlusconi, e riafferma la sua posizione come componente centrista del centrodestra.
Anche in questo caso, ben poche ombre ad una vittoria significativa.
Poi abbiamo il PD di Schlein: chiara vittoria del PD che accresce di 5 punti rispetto alle ultime politiche. Si prende il ruolo di forza trainante del centrosinistra e ne definisce il profilo aggregatore. La segretaria rafforza il suo ruolo e si prende la consacrazione almeno fino alle prossime politiche.
Sulle ombre poco di ché: forse un risultato non brillantissimo in termini di preferenze che non ha premiato un notevolissimo sforzo di aver girato un po’ tutta Italia. E, volendo cavillare un po’, una pattuglia parlamentare che non sarà facilissimo condurre. Per il resto ben poco da dire.
Infine AVS: riescono a passare lo sbarramento; portano a casa l’elezione della Salis su cui avevano pesantemente investito; accrescono la loro quota elettorale.
Anche qui poche ombre se escludiamo il fatto che sono una forza che è strutturalmente ai margini dei giochi in Europa.
E qui finiscono i vincitori.
Gli sconfitti partono al centro: Bonino, Calenda, Renzi (in rigoroso ordine alfabetico). Restano divisi e così vanificano la possibilità di passare lo sbarramento. Non riescono a depolarizzare la politica italiana, secondo il loro progetto politico (se sia un bene o un male è lasciato all’interpretazione di ciascuno). Danno l’impressione di essere ai margini.
Luci quasi nessuna ma gli va riconosciuto il coraggio di provarci anche quando la disfatta appare ineluttabile.
Poi ci sono i due sconfitti più di maggior peso.
Prima Salvini: il capitano ha imbarcato il generale. E questo lo ha salvato: senza i suoi voti la segreteria salviniana sarebbe stata seriamente compromessa, forse sarebbe persino saltata. Nel complesso la Lega tiene ma con evidenti problemi: perde voti al nord che compensa un po’ al sud; diventa la terza forza del governo subendo il sorpasso di FI; la linea aggressiva del segretario viene sconfessata dalle urne e il risultato è la marginalità politica della Lega, a parte il ministro Giorgetti, vetero-leghista supportato più fortemente dalla Meloni che non dal partito.
Il punto più delicato per Salvini è il rischio di essere schiacciato tra due muri: da una parte la vecchia Lega, radicata ormai più nel nord-est che altrove, fortemente critica con il segretario; dall’altra la nuova Lega, di protesta e fortemente tradizionalista, che potrebbe trovare in Vannacci un interprete più “appealing” che potrebbe essere ben difficile da gestire. Lo spazio di manovra pare essere veramente poco e il rischio di essere disarcionato appare in crescita.
Infine Conte: non si candida e i 5Stelle franano. La vecchia guardia gli volta le spalle e gli contesta la gestione autonoma e leaderistica. Il tracollo di voti è drammatico e solo per un soffio non scivola al quarto o quinto posto come partito. Le richieste di dimissioni sono tante e vengono da più parti.
Probabilmente riuscirà a restare in sella ma la sua leadership ne esce ammaccata. Una misura di questo ridimensionamento sarà il fatto che dovrà subire la rimozione del limite di due mandati che aprirà la porta ad altri soggetti forti nel movimento e che permetterà una graduale riduzione delle sue prerogative.
Infine un’ultima osservazione: in quelle elezioni che dovevano suggellare la disgregazione del sistema politico italiano, accelerata dal proporzionale, l’Italia si riscopre bipolare. C’è una chiara divisione tra centrodestra e centrosinistra e due chiari partiti che hanno la rispettiva leadership. Ci sono due leader che avranno il compito di coordinare i due schieramenti (Meloni e Schlein) e che dovranno coordinare le rispettive aree: più facile per il centrodestra più complesso per il centrosinistra. Ma entrambe hanno pieno mandato nelle urne.
Vedremo se sapranno approfittare dell’opportunità che hanno trovato.
Foto di Brent Druyts