L’attentato di Sarajevo, 28 giugno 1914. (parte 1)

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In genere cominciano così tutti gli articoli commemorativi e celebrativi di quello che vene considerato l’evento di inizio della Grande Guerra; l’attentato di Sarajevo. E in effetti questo atto criminale da l’inizio ad una catena di reazioni politiche che in brevissimo tempo, meno di un mese, innescano il grande conflitto. Come una scintilla, appunto.

La bellissima copertina del Corriere della Sera, acquarellata dal celebre disegnatore Achille Beltrame, è errata.

Le posizioni delle de celebri vittime e dell’attentatore Gavrilo Princip sono invertite. L’Arciduca era seduto a sinistra, sua moglie, la contessa Chotek a destra. Il serbo Gavrilo che spara colpisce per primo la contessa, con un colpo in basso, al ventre.

Ma questo Beltrame non poteva saperlo il 28 giugno 1914. La telefonata arrivata in redazione dalla Agenzia di stampa Stefani dava solo la notizia cruda del fatto. Toccò a Beltrame immaginare la scena e renderla pittorica, per poter dare un contributo visivo efficace al giornale. Mi pare che comunque fece un certo effetto.

Ho preso un po’ di passione e interesse storico su questo argomento; tutto nasce da un momento del mio servizio militare.

Nel ’97 mi trovavo a Sarajevo a rimuovere bombe e mine che si erano generosamente scambiati vicendevolmente serbi e bosniaci, ma anche croati e sloveni, e che a conflitto finito rimanevano inesplosi sul terreno. Una delle attività operative del contingente multinazionale S.F.O.R. era appunto il “Demining”, che contribuiva a mettere in sicurezza il territorio dal pericolo delle mine e ordigni inesplosi e così far ripartire le attività economiche, sociali e civili. Io comandavo un Nucleo “B.O.E.” (Bonifica Ordigni Esplosivi) e assieme a altri camerati svolgevamo questo compito a favore della sicurezza delle nostre truppe e della collettività locale.

La foto mi ritrae con il “prodder” il lungo spillone per saggiare il terreno dalle mine, è stata scattata sul ponte di Verbanja a Sarajevo, noto come il “Ponte degli innamorati Vrbana, Sarajevo, BH 1997 “il Ponte degli Innamorati”; tristemente noto per essere il luogo della uccisione da parte di cecchini di due ragazzi, uno serbo Bosko Brkic, e una ragazza bosnica, Admira Ismic; innamorati della vita, si incontravano in un caffè poco distante, li sotto. E lì sul ponte, qualcuno dalla collina, ha terminato il loro amore. I loro corpi vi sono rimasti per otto giorni, sotto il fuoco dei tiratori scelti che bersagliavano chiunque. Ci volle una tregua speciale per rimuovere i due ragazzi uccisi. Una targa e un mazzo di fiori sul parapetto ricordano il loro amore.

L’attività che svolgevo mi aveva permesso di conoscere, per motivi di servizio, alcuni personaggi del settore, in particolare un capitano artificiere della Polizia Criminale Bosniaca, che aveva perso il braccio destro mentre rimuoveva una mina in un parco giochi. Era rimasto in servizio indossando una speciale protesi; ci trovavamo spesso per i vari attentati, e parlando davanti a un caffè turco (da non mescolare mai con il cucchiaino!) mi aveva coinvolto e appassionato nello studio e nella conoscenza del famoso attentato. D’altra parte eravamo proprio sul posto del fattaccio (Sarajevo), quella che chiameremmo oggi “la scena del crimine”, e quindi piano piano avevo acquisito alcune informazioni che mi incuriosivano sempre di più. Mi aveva accompagnato sul posto dell’attentato, il Ponte Latino, un giorno che pioveva. Eravamo orami ai primi di dicembre e il mio turno di missione era come si dice “in corto finale”, al termine. Avevo scattato questa foto:

La freccia indica il punto da dove l’attentatore il giovane Serbo-bosniaco Gavrilo Princip di anni 19 e mesi 11, aveva fatto fuoco.

Confesso che era emozionante vivere la Storia in quel modo, sui luoghi del fatto. Poi a casa avevo integrato il tutto con un copiosa acquisto di libri sull’argomento che aveva seriamente compromesso la stabilità del solaio!

Il capitano artificiere mi aveva fatto fotografare alcuni documenti che aveva ritrovato nel loro archivio; il verbale di sequestro delle armi e delle bombe a mano, il verbale di arresto di Gavrilo con le sue impronte e altri. Davvero dei documenti importanti e dalla cui analisi si ricavano informazioni precise.

Ad esempio se si osserva con attenzione il verbale di sequestro della armi, si vedono le sei munizioni cal.32 ACP integri, due bossoli che corrispondono ai due soli colpi-entrambi mortali. Esplosi due, ma un solo piccolo proiettile recuperato in sede di autopsia dal basso ventre della Contessa Sophia Chotex, che aveva provocato una forte lacerazione e emorragia mortale; è quello piccolino in alto, un po’ deformato dall’impatto con la portiera dell’auto che aveva perforato prima di lacerare il ventre della contessa. Il secondo proiettile, che manca nei reperti è rimasto piantato nella carotide dell’Arciduca Francesco Ferdinando, perchè il dottor Poietk incaricato della autopsia, non ritenne opportuno rimuoverlo per non deturpare il volto dell’Arciduca. Questo per spiegare che non fu né una scarica di colpi, né quattro e né sei colpi di revolver (la pistola era semiautomatica, una Browing mod. 1910) ma “due” soli colpi; due bossoli recuperati, un proiettile estratto e uno nel collo: gli altri sei colpi inesplosi sono visibili sotto; il caricatore ne conteneva 8. Quindi 6 + 2 fa 8. Basta leggere. Fine argomento.

Torniamo a Sarajevo, quel 28 giugno.

Un gruppo di ragazzi, appartenenti alla organizzazione della Mlada Bosna (la Giovane Bosnia) parte per Sarajevo. Per uccidere l’Arciduca Francesco Ferdinando. La Mlada Bosna era una organizzazione terrorista, panslavita e irrendentista, che si ispirava addirittura alla Giovane Italia di Mazzini (tanto da stampare un giornale che diffondevano nel ’15, chiamato “Pijemont”, il nome serbo del Piemonte, lo stato che guidò l’unificazione dell’Italia sotto Casa Savoia.

La Mlada Bosna in realtà era controllata da una più importante e funzionale organizzazione terroristica: la Ujedinjenje ili Smrt (Unione o Morte), più tardi tristemente conosciuta come LaMano Nera.

Sorta in occasione della crisi bosniaca del 1911, data della unificazione al Regno AustroUngarico, la Mano Nera era controllata dal Colonnello Dragutin Dimitrijević detto “l’Apis”, o anche “Linea diretta” o ancora “Il numero 6”.

Costui era davvero un personaggio particolare, massone e rivoluzionario: Dimitrijević assieme ad un gruppo di giovani ufficiali aveva pianificato nel 1903 l’uccisione dell’impopolare re serbo Alessandro I Obrenović.

L’11 giugno 1903 l’Apis con i suoi, assalì il palazzo reale ed assassinò sia il re Alessandro I che sua moglie Draga Mašin, facendoli a pezzi e gettandoli fuori dalle finestre del palazzo reale.

Era un tipo risolutivo il Colonnello Apis. Nel combattimento fu però ferito gravemente, e tre pallottole rimasero per sempre nel suo corpo. Diventò così una specie di eroe nazionale e riuscì ad organizzare meglio la Mano Nera che era articolata in due rami funzionali e segreti: la Narodna Odbrana (Difesa nazionale) e la Mlada Bosna (Giovane Bosnia). Quest’ultimo ramo fu incaricato dall’Apis di preparare un ennesimo attentato alla casa reale austroungarica, ennesimo perché in realtà di attentati ne organizzava molti, ma quasi sempre con esiti fallimentari.

Ma stavolta avevano individuato i soggetti giusti. Gavrilo Princip, assieme a Nedeljko Čabrinović e Trifko Grabež, Vaso Čubrilović, Cvjetko Popović, Danilo Ilić e Muhamed Mehmedbašić. Tra loro, inizialmente nella Mlada Bosna c’era anche lo scrittore Premio Nobel Ivo Andric, che però non partecipò in alcun modo all’attentato.

Tutto questo dipendeva da loro, credevano… o meglio, gli avevano fatto credere.

Giovanissimi, ascetici, età media poco più di 20 anni, avevano fatto voto di castità, di rinuncia al tabacco e all’alcool, e avevano giurato di condurre una vita morigerata per avere le energie necessarie all’estremo sacrificio, in nome della riunificazione di tutti i popoli slavi sotto il controllo serbo. Erano determinati a portare a termine l’attentato, con l’intima convinzione di riuscire a far aggregare la popolazione serba della Bosnia, nella ribellione alla casata Asburgica. Il sogno della Grande Serbia, lo sbocco sul Mar Adriatico, il collegamento non solo mentale ed empatico con la grande Madre Russia.

Per questo partirono dalla locanda Kaffeehaus di Belgrado, luogo di ritrovo dei cospiratori e si incamminarono verso Sarajevo.

300 km da fare a piedi o con mezzi di fortuna. E con la certezza che, nonostante le mille precauzioni, qualcosa era trapelato e la polizia bosniaca era stata messa in allerta. Il Colonnello Apis aveva fatto avere loro un po di armi e bombe tramite il maggiore Voja Tankošić, un personaggio importante della Mano Nera, che gli aveva consegnato quattro pistole semiautomatiche Browing mod. 1910, calibro .32 ACP con un po di munizioni, e sei bombe a mano modello Kragujevac, a tempo. Avevano acquistato anche del cianuro in fiale da assumere immediatamente dopo l’attentato, per non cadere vivi nelle mani della polizia; avevano fatto un giuramento solenne su questa cosa, ma siccome erano poveri e avevano pochi soldi, il farmacista gli consegnò del cianuro scaduto, che al momento della ingestione provocò loro solo dei forti conati di vomito senza ucciderli.

Succede, la Storia a volte ha dei risvolti incredibili. Tra il serio e il faceto.

Il viaggio è descritto in un bel libro “The Road to Sarajevo” di Vladimjr Dedjier, un malloppone in lingua inglese di 550 pagine, con la copertina rossa, che riporta una foto storica, peraltro errata, che descrive minuziosamente tutto il percorso dei congiurati, dove dormirono, dove mangiarono, dove si fermarono in un bosco in Bosnia a esercitarsi al tiro con la pistola, ricevendo una multa da una guardia forestale austriaca per danneggiamento degli alberi di proprietà dello Stato!

Era come se Alì Agjà fosse stato fermato dalle guardie svizzere del Vaticano mentre si esercitava al tiro con la pistola sotto il colonnato del Bernini a Roma!

Che cosa andavano a fare ormai era chiaro a molti.

Anche perché appena partiti il piano dell’attentato era stato annullato dal governo serbo, ma l’ordine di annullamento non era stato ricevuto (forse appositamente…) dagli attentatori già in viaggio.

Quando finalmente questi arrivarono a Sarajevo, verso il 25 giugno, presero alloggio separatamente, chi in una locanda, chi da amici, chi da parenti. Il piano era chiaro: il giorno 28 giugno, un fatidico giorno per la Storia, avrebbero provato a cambiarne il corso.

Vittorio Lino Biondi
Vittorio Lino Biondi
Sono un Colonnello dell'Esercito Italiano, in Riserva: ho prestato servizio nella Brigata Paracadutisti Folgore e presso il Comando Forze Speciali dell'Esercito. Ho partecipato a varie missioni: Libano, Irak, Somalia, Bosnia, Kosovo Albania Afganistan. Sono infine un cultore di Storia Militare.

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