20 anni di guerra: una guerra nutrita dalla speranza di far crescere i propri figli in un paese migliore, non inchiodato nelle condizioni e nei preconcetti che ricordano il medioevo. 20 anni di guerra sfumati in 7 giorni, quei 7 giorni in cui il gruppo fondamentalista, un tempo studenti del Corano ma oggi alla ricerca più smodata di credibilità istituzionale, hanno conquistato praticamente tutto l’Afghanistan senza che nemmeno il mondo intero se ne accorgesse.
Tutto è stato così veloce: gli spari, Kabul sotto assedio, bambini lanciati al di là del fino spinato ai soldati per trarli in salvo, persone agganciate agli aerei in volo che vanno incontro alla morte certa, gli Americani che decidono di lasciare il Paese annunciando “la guerra è finita”, ma sostanzialmente lasciando i cittadini in mano di chi del paese vuole farne uno scrigno di paura e violenza, cancellando senza pietà questi anni di passi avanti che, pur con fatica, ci sono stati.
Questi bagliori di luce arrivano soprattutto dalle donne, coloro che giorno dopo giorno in questi anni hanno scoperto che non sono destinate ad essere solo strumenti di chi le vorrebbe come fantocci pronte all’uso. Negli anni infatti le donne di Kabul principalmente, ma in generale la popolazione femminile afghana, ha iniziato a credere di poter essere di più: donne, madri ma anche professioniste, lavoratrici, indipendenti. Le ambizioni alle quali si sono aggrappate per anni, cercando di tramandarle alle generazioni future, calpestate ormai in qualche giorno.
Le donne afghane non sono più quelle di 20 anni fa è vero, ma nemmeno i Talebani sono più quei combattenti accecati da una spiritualità distorta. Si sono fatti trovare pronti e hanno schiaffeggiato moralmente sia l’esercito afghano, che in pochi giorni si è sciolto come neve al sole, ma anche l’Occidente portandoci tutti a chiederci “cosa è stato fatto in questi lunghi anni dove la pace non si è mai vista e dove molti uomini hanno perso la vita, a questo punto, senza senso?”
Ne abbiamo parlato con Jala, giovane donna afghana che vive a Lucca da anni ormai, ma che non ha mai spezzato il cordone ombelicale con il suo paese, con le sue origini e con quel senso di rivalsa che anima, oggi ancora di più, le generazioni femminili di quel teatro dell’orrore che vuole apparire ora patinato.
Jala, tu oggi hai 28 anni, che rapporto hai con il tuo paese d’origine, l’Afghanistan?
Io sono nata a Kabul e ci sono rimasta fino all’età di 13 anni. L’Afghanistan che ricordo da piccola non è certamente quello che vedo e ho visto in questi anni. Ho vissuto l’attentato delle Torri Gemelle, il mondo contro il mio paese, lo stigma verso qualsiasi cittadino provenisse da questa terra. Ho vissuto, per quanto fossi ancora una ragazzina, l’inizio della guerra, l’entrata delle truppe americane, l’arrivo del Talebani e lo ricordo con gli occhi impauriti di mia madre. Quegli occhi non li dimentico mai, ed è per questo che nella vita mi sono ripromessa di voler essere una donna diversa, per riscattare anche lei che non ha avuto la possibilità in un Afghanistan che vedeva – e vede ancora oggi – le donne come strumenti per gli uomini. Mi sono trasferita in Italia grazie al lavoro di mio padre: mi sento italiana oggi, toscana, anche se all’inizio non è stato facile, ma nel mio cuore c’è la mia terra e vederla ridotta a brandelli, come oggi è, mi provoca rabbia e tristezza. Io sono laureata, ho il mio lavoro, un fidanzato e un’indipendenza più o meno stabile: quando rientro in casa la sera penso alle amiche che ho lasciato là, con le quali sono ancora in contatto, penso a quelle donne che non sono più le donne della generazione di mia madre ma che sono state comunque catapultate da un giorno all’altro nel passato: quel passato fatto di paura e terrore. Quel passato che sentir bussare alla porta può voler dire “morte” e a volte speri che sia così, perchè le torture sono quasi peggio, quel passato che oggi è un presente vissuto a metà.
Come giudichi la presa del paese da parte dei Talebani, il nuovo Governo, e l’abbandono delle forze armate degli Stati Uniti?
Non ho mai “abbandonato” il mio paese, sono sempre in contatto con le persone vicine alla mia famiglia che ancora abitano a Kabul e in tutti questi anni ho sempre seguito ciò che stava accadendo. Nonostante sia felice e mi ritenga fortunata di vivere in Italia la mia terra e le mi radici sono sotto la sabbia rossa dell’Afghanistan. I Talebani di oggi vogliono presentarsi con una veste diversa, si sono evoluti, hanno avuto il tempo di prepararsi, hanno avuto la possibilità – attraverso denaro e armi – di arrivare pronti alla presa del paese e così è andata, non si più negare. Ciò che sta accadendo però è solo la “grande bugia” dell’Afghanistan: sentir parlare di “istituzionalizzazione” da parte di un movimento terroristico, perchè questo sono i Talebani, è indecente. Vederli seduti al Governo con le armi, vederli di nuovo andare a prendere le donne nelle case, cancellare l’identità di giovani ragazze attraverso la violenza, pretendere di guidare un paese con un fucile in mano è ciò di più tremendo che potesse accadere. Ma quello che spaventa di più sono tutti coloro che vedono in loro la pace, quella pace che promettono, invocando la fine della guerra sparando sulle persone. Sono una contraddizione vivente, permessa grazie all’incapacità di un popolo di affermare i propri valori e le proprie pretese. Non che sia semplice ma quello che è successo in queste poche e concitate settimane mai me lo sarei aspettato. Per quanto riguarda l’abbandono delle forze americane, già annunciato, credo solo che sia un fatto politico, economico: una partita a risiko tra le grandi potenze, dove le pedine ad essere spazzate via siamo sempre e comunque noi.
In questi lunghi 20 anni cosa è successo e cosa è andato storto?
Tralasciando appunto gli interessi politici ed economici, che sono alla base di questa triste storia ma che non basterebbe un libro per elencarli, credo che gli Stati Uniti – e l’Occidente in generale – abbiano fatto un grande errore in questi 20 anni: voler snaturare un paese e un popolo che, appunto, per natura non è e non sarà mai come loro si aspettavano. L’Afghanistan nasce diviso in tribù, con credenze diverse e minoranze degne di rispetto. Era un’utopia voler affermare una democrazia di tipo occidentale: sarebbe come pretendere di insegnare a correre a un bambino che appena muovi i suoi primi passi. Non voglio puntare il dito contro nessuno, qualcosa di buono c’è stato in questo ventennio: le persone hanno acquisito fiducia in loro stessi, i diritti umani sono stati quantomeno tutelati, il ruolo della donna è riuscito ad affermarsi e per un paese come l’Afghanistan sono risultati sicuramente eclatanti. Il problema è che tutto è sempre stato molto precario ed infatti si è visto che è bastato un soffio per spazzare via tutti gli sforzi di questi anni. L’esercito afghano non è riuscito a difendere il proprio paese e non perchè non fosse interessato a ciò ma perchè – come ho detto – esso è stato addestrato dagli occidentali secondo metodi e logiche lontani anni luce dai valori e del mio paese. Nel mentre i Talebani sono stati più furbi – non si può negare – hanno capito come porsi con le grandi potenze, hanno capito che se non avessero fatto quel passo in avanti non sarebbero mai stati presi in considerazione e sarebbero rimasti solo guerriglieri. Oggi siedono al Governo, con i fucili in mano, vietano di nuovo la musica, violentano le donne, sparano sugli uomini, ma – allo stesso tempo – vengono ascoltati dall’Occidente. E’ surreale ciò che sta accadendo, inumano e privo di ogni logica se non quella, forse, del potere..alla faccia dei cittadini catapultati in questo inferno.
Come vedi le proteste delle donne afghane e quanto le consideri importanti?
Le proteste è tutto ciò che ci è rimasto, e parlo al plurale perchè mi sento parte di quelle ragazze che rischiano la vita per affermare i propri diritti ma soprattutto il proprio essere. “La rivoluzione è donna” e le afghane lo stanno dimostrando al mondo intero. Il coraggio che stanno dimostrando e l’audacia di sfidare anche la morte pur di affermare loro stesse mi rendono ottimista nei confronti dell’umanità, anche se so che tutto ciò potrebbe non portare a niente, anche se so che il destino di quel paese forse è ormai già segnato. La rivolta in Panjshir è stato un faro, la perfetta combinazione tra le tradizioni del passato e la voglia di un futuro diverso. Ci credo, credo che quella è la mia gente e che non tutto sia perduto. Credo nelle donne che tra gli spari invocano la libertà. Devo continuare a crederci anche se oggi è difficile.
Se tu fossi lì, oggi, cosa faresti?
Non posso dirti con certezza cosa farei, non so che vita mi sarebbe aspettata se non avessi lasciato Kabul. Da lontano posso dirti che il mio cuore è vicino a quelle donne e che i miei sogni mi vedono protagonista di quelle proteste senza esitazioni. Per come sono fatta io, per come mi hanno cresciuto, per quegli occhi di mia madre che ho visto per molto tempo, credo che non riuscirei ad accettare ciò che sta accadendo, credo che l’ambizione di affermarsi in quanto persone e in quanto donna mi porterebbero a rischiare la vita ogni giorno. Lo farei per me stessa, ma soprattutto per i figli che vorrei avere un giorno.
Che futuro prevedi per l’Afghanistan?
C’è chi dice che l’Afghanistan non ha futuro. Con un passato di distruzione, guerra e violenza è difficile pensare ad un futuro reale e concreto in nome della libertà personale e collettiva. Il problema di questo paese è infatti proprio il passato, che si ripete, che come uno stigma non lascia spazio a un presente. Siamo un popolo senza presente, è inutile negarlo. Non credo ai Talebani e non voglio pensare a tutto ciò che le donne, principalmente, dovranno affrontare se le cose andranno come sembra. Quelle donne che hanno assaggiato, anche se solo per poco, il vivere davvero, oggi sembrano costrette a dover buttare tutte le conquiste: stanno resistendo e lo stanno facendo onorando tutte le generazioni femminili del mondo. Spero solo che l’occidente si ricordi di noi, non solo adesso che l’Afghanistan è a tutti gli effetti oggetto di discussione nel mondo, spero continui a lottare per noi anche domani o tra un mese quando il mondo avrà spostato gli occhi su altro, dimenticandosi che nel frattempo il mio popolo continuerà a morire per affermare i propri diritti.
Foto da Quotidiano.net