La fiera delle vanità. Quando una buona soluzione non è sufficiente.

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È andata assai peggio di quanto era lecito attendersi. O, forse, assai meglio di come poteva finire.

La rielezione di Mattarella alla Presidenza della Repubblica non può essere vista con favore acritico. Non per la persona in sé: Sergio Mattarella è stato un buon Presidente e, siamo certi, lo sarà anche nel nuovo mandato.

Ma per quello che significa questa elezione: la politica non è più in grado di guidare questo paese. Non ne ha le forze. Non ne ha le capacità. Non ne ha neppure più il necessario senso istituzionale.

I motivi che rendevano inopportuna la rielezione, li aveva indicati il Presidente stesso più e più volte. La circostanza che sia stata la seconda volta consecutiva che questo avviene, rende questo fallimento ancora più evidente.

Al ruolo di Presidente della Repubblica non ci si candida. E, se si viene eletti, non si rifiuta.

Non ci si candida perché “nessuno è degno” di rappresentare tutti gli italiani. Non si rifiuta perché “nessuno è al di sopra di tutti” e nessuno ha quindi il diritto di porre il proprio interesse prima di quello della nazione.

E già qui le cadute di stile, gli errori istituzionali e le vere e proprie mancanze di senso delle istituzioni (fino quasi al vilipendio) si sono sprecate in questa folle settimana. Sono stati lanciati tantissimi candidati, molti dei quali bocciati virtualmente ancora prima di entrare nelle urne. Sono state prese delle istituzioni e usate come fossero carte da gioco. È stata la fiera delle vanità.

E il paese ha guardato attonito.

Certo, non tutti hanno capito il senso di ogni mossa. Ma tutti hanno avuto la sensazione che i leader erano sbandati: cercavano di assecondare quanto succedeva e non erano in grado di guidare gli eventi. Neppure di parlare tra loro in modo ragionevole.

Ci sono quattro ordini di conseguenze importanti: la tenuta del governo, le conseguenze interne ai partiti, la nuova geografia degli schieramenti, la necessità di riformare le istituzioni.

Sulla tenuta del governo, nell’immediato, parrebbe che non dovrebbe esserci una grossa turbolenza. Ma, nel breve volgere di qualche mese le cose si faranno assai più complesse. Prima di tutto dovremo vedere come si atteggerà la Lega. Ha cercato in tutti i modi di impedire a Draghi di traslocare al Quirinale e ora è tentata dal prenderne le distanze per ridurre lo spazio di FdI. Conte, per il M5S, ha dato evidenti segnali di voler vedere Draghi “morto”. Le campagne elettorali sono alle porte. E, da settembre, finisce anche la “garanzia” legata al raggiungimento dei requisiti per la “pensione” dei parlamentari (i famosi/famigerati 4 anni 6 mesi e 1 giorno) che ha contribuito non poco a tenere sotto controllo la situazione in questa funambolica settimana.

Sul terzo e quarto punto (la nuova geografia degli schieramenti e le riforme istituzionali) torneremo in futuro con qualche approfondimento. Per ora limitiamoci a registrare che l’asse centrista ha retto piuttosto meglio del prevedibile e che anche Forza Italia, al momento, sembra essere in avvicinamento a questo “nuovo polo”. E questo darà nuova linfa ad un processo di aggregazione sempre in bilico tra il possibile e il velleitario. Un processo che, anche a livello locale, potrebbe avere un futuro ben visibile e importante in ottica elezioni amministrative.

Sulle conseguenze all’interno dei partiti, i tempi di maturazione saranno più o meno gli stessi, forse anche un po’ più rapidi. Nessuna leadership ne è uscita immacolata. Certo, però, c’è chi ne è uscito assai contuso. Facciamo il punto per ciascuno dei partecipanti alla Grande Corsa.

7 ½Pier Ferdinando Casini: mantiene quasi sempre il profilo giusto per chi aspira alla carica di Presidente della Repubblica. Ossia, non dice nulla e non fa nulla. Lascia che altri facciano per lui e resta in disparte. Unica (piccola) caduta di stile il post il su Instagram (“La passione politica è la mia vita”) in cui vuole evidenziare la sua “natura politica” per contrapporla a quella “tecnica” di Draghi. Ma poi si riprende, quando fiuta l’aria e capisce in che direzione sta andando il vento, chiedendo di puntare su Mattarella e di non essere considerato un candidato. Ottiene di essere ancora candidabile per il futuro: non male per questo tipo di cose.

7 ½Luigi Di Maio: governa i suoi nell’ombra. Parla poco e mai a sproposito. Tallona Conte quando vuole fare mosse sbagliate. Non riesce a portare Draghi al Quirinale ma mantiene leadership e affidabilità. D’ora in avanti, molto più di prima, sarà il vero interlocutore per il PD. Ora ha davanti la battaglia della vita per il controllo del M5S. O l’avventura della scissione. Da seguire con attenzione.

7Matteo Renzi: ha cercato il colpaccio. Ha puntato forte su Casini. E ha cercato di tenere insieme il centro dello schieramento. È stato istituzionale ed è riuscito ad essere in partita nonostante disponesse di numeri assai limitati. Alla fine non porta a casa il suo candidato ma la conferma di Mattarella è ben più di un pareggio per lui. In fondo è stato lui a farlo salire al Colle l’altra volta. Ed è lui che ha stoppato, alzando un fuoco di fila e paragonando l’Italia all’Egitto di Al-Sisi, il contropiede più insidioso: quello di Conte e Salvini sull’incolpevole Belloni (capo del Dis, i servizi segreti italiani).

6 +Roberto Speranza: apparizione quasi incolore ma senza comunque nessun errore. Aveva una preferenza per Draghi ma non spinge. Neppure però si agita e passa la prova senza che neppure di si sia accorti che era presente. Del resto, guida una forza assai poco rilevante negli equilibri del parlamento e non era necessario nulla di più.

6 – Enrico Letta: il suo vero obiettivo era non spaccare il gruppo del PD. E non subire un Presidente indigeribile per la sinistra. Poi, solo se possibile, aveva una preferenza per Draghi. Conduce bene la tattica parlamentare. Incontra delle difficoltà quando troppo facilmente evidenzia che non governa davvero il partito ma ne deve seguire gli umori. Viene tradito dall’alleato Conte. L’unico vero scivolone lo ha quando non capisce il rischio di lasciare la Belloni nella rosa e quasi ci viene incastrato. Ma poi, veramente un po’ a sorpresa, ritrova feeling con Matteo Renzi e salva la situazione con Mattarella (che, in fondo, veniva dal PD e quindi è ben più di un pareggio quello che ottiene). Qualche incertezza istituzionale ma, nel complesso, una buona prova.

5Giorgia Meloni: entra in partita con un obiettivo dichiarato. Quello di tenere insieme la coalizione. E con uno meno dichiarato ma ugualmente noto: ottenere le elezioni anticipate. Fallisce entrambi. Cerca tutti gli spiragli per insinuarsi nelle spaccature dei fronti. E su questo ha vita facile visto che ce ne erano ovunque. Ma nel farlo fa deflagrare la coalizione. Cerca, e perde, la prova di forza parlamentare (sulla Casellati). Rompe con FI di fatto spingendola, e dando forza, ad una nascente area di centro. Con le sue azioni favorisce la rielezione di Mattarella che non è certo un successo per lei (e che difficilmente le consentirà di salire a Palazzo Chigi dopo le elezioni). Crea le condizioni per far approvare una legge elettorale maggioritaria. Infine, non riesce a tenere neppure l’asse con la Lega. Però riesce a comunicare in modo semplice e comprensibile e limita i danni in modo ammirevole (nascondendo le dimensioni della sconfitta).

5 –Silvio Berlusconi: voto ottenuto come media (ritoccato al rialzo per il suo innegabile fiuto finale) dei due tempi che ha giocato. Nel prepartita (fino a sabato della scorsa settimana) commette ogni errore possibile. Si candida alla Presidenza (a cui, come ben sa uno con la sua storia, non ci si candida) e poi si autosospende. Trascina la coalizione su un binario morto. Perde la “conta virtuale” del voto e si ritira a Milano. Prestazione da dimenticare. Poi, teleguidando il partito, trova il modo di essere centrale e infine appoggia convintamente Mattarella (che pure non aveva gradito alla prima elezione). Infine, “sfiducia” un Salvini alle corde e apre ai suoi una nuova prospettiva politica fuori dal centrodestra. Fuoriclasse da zona Cesarini.

4Matteo Salvini: si agita, cerca di sparigliare, cerca di ribellarsi al destino che sembra segnato. Si muove tanto, tantissimo. Propone (e boccia direttamente lui) un numero esorbitante di candidati. Aveva promesso il primo presidente di centrodestra e si piega ad un ex PD. Aveva promesso un centrodestra unito e ottiene l’evaporazione dell’alleanza. Manca di senso delle istituzioni trascinando ogni carica in un gioco al massacro senza senso reale. Affronta la prova dell’aula in ritardo e la perde malamente. Rompe con FI per inseguire la Meloni. Cerca il colpo con il nemico Conte. Parte per il contropiede e si fa fucilare a mezzo campo dal solito Renzi che gli rinfaccia malamente la sua poca sensibilità istituzionale. È costretto a mollare la Meloni che lo fulmina con un tweet (“Salvini propone di andare tutti a pregare Mattarella di fare un altro mandato da Presidente della Repubblica. Non voglio crederci.”). Ormai la sua leadership nella coalizione è evaporata. Mantiene salda la guida della Lega (per ora?) ma, nei palazzi, non è decisamente a suo agio. E, in Parlamento, non riesce mai a fare bene.

3Giuseppe Conte: la sua insofferenza per il premier in carica è stata resa palese dalla settimana elettorale. Aveva solo questo come obiettivo e, in questo senso, ha ottenuto quello che voleva. Ma ha anche fatto deflagrare la contrapposizione con Di Maio e questo gli renderà assai più difficile la navigazione nel prossimo futuro (e, forse, gli costerà la presidenza o l’unità del partito). Flirta con Salvini solo per condividerne la sconfitta finale. Rompe il rapporto di fiducia con il PD. Travolge il capo del Dis in un piano politico per spiazzare i suoi alleati accordandosi con la Lega (pensate a che vorrebbe dire far bocciare dal parlamento il capo del Dis…). Poi non riesce a celare il suo disappunto per il fatto che “il nemico” resta a Palazzo Chigi. Prestazione da dimenticare! (o da non dimenticare…)

2Elisabetta Casellati: prima trascina, a suon di litigi con chi le consigliava di avere prudenza, la seconda carica dello stato (la Presidenza del Senato) in un’insensata prova d forza. Poi offre indecoroso spettacolo di disinteresse per il ruolo che ricopre durante le votazioni, compulsando il cellulare. Quindi, perde malamente evidenziando quanto quella forzatura fosse ritenuta inopportuna anche all’interno del suo stesso partito. Infine, da prima donna, se ne va per un “mancamento”.

Andrea Bicocchi @Andrea_Bicocchi

Andrea Bicocchi
Andrea Bicocchi
Imprenditore, editore de "Lo Schermo", volontario. Mi piace approfondire le cose e ho un'insana passione per tutto quello che è tecnologia e innovazione. Sono anche convinto che la comunità in cui viviamo abbia bisogno dell'impegno e del lavoro di tutti e di ciascuno. Il mio impegno nel lavoro, nel sociale e ne Lo Schermo, riflettono questa mia visione del mondo.

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