La CGIL sfila contro il PD; e la Schlein apprezza

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La recente manifestazione del sindacato “contro lo smantellamento della sanità pubblica” e per il salario minimo è un interessante caso di sdoppiamento della personalità.

Da una parte il sindacato denuncia la perdita di 40 miliardi alla sanità pubblica (parola di Landini) negli ultimi 20 anni: cioè dal 2003 al 2023. Ma in quel periodo di tempo il centrosinistra che applaudiva a Landini, cioè PD e 5 Stelle, ha governato per 14 anni tra cui anche gli anni di maggior tagli alla spesa pubblica (sanità compresa). Erano i governi Prodi II, governo Monti, i governi Letta, Renzi e Gentiloni e infine i governi Conte I e II e Draghi (nel Conte I il PD era opposizione ma i 5 Stelle ovviamente erano al governo). E di questi anni gli ultimi 11 quasi ininterrotti. Se poi osserviamo anche che il Governo Meloni non ha tagliato nulla alla sanità nella finanziaria 2022… (quella che Landini contesta al governo è l’ipotesi di DEF per il 2023, quindi non ancora legge).

Quindi la rivendicazione dei tagli di 40 miliardi è rivolta contro il PD che quei tagli li ha sostenuti quando era necessario farlo (giustamente). Ma che poi la leader di quel partito dimentichi di essere a capo dello stesso partito e parli come se fosse la leader del movimento delle sardine, beh, mi pare un po’ curioso.

Analoga curiosità suscita la scelta di puntare forte sul salario minimo. Questo è sempre stato un tema avverso al sindacato: la presenza di un salario minimo per legge rende non necessario (o almeno non un’urgenza sociale) la presenza di contratti nazionali. E quindi mette in discussione la necessità che la rappresentanza dei lavoratori sia chiamata a trattare e validare con la propria firma un contratto di categoria visto che la parte di stipendio è ovviamente la più importante. Senza contare che il caso in cui la tariffa salariale del contratto collettivo fosse molto superiore al minimo salariale (come avverrebbe per molti settori) costituirebbe uno spunto dialettico a favore del datore di lavoro sulle richieste di aumenti.

A questo va anche aggiunto che, in un paese come il nostro in cui gran parte dei settori (se non quasi tutti) hanno un contratto collettivo, la questione del salario minimo riguarda meno dell’1% della popolazione. Non certo un motivo per non occuparsene, anzi. Ma neppure questione che libera milioni di persone dalla povertà o che sia preoccupante per i conti del paese. Infine il salario minimo diventerebbe un elemento che, inevitabilmente, legittimerà ogni contratto nazionale anche firmato dalle sigle più improbabili, appena la componente tariffaria sia superiore a quel minimo. Col che si riduce dell’altro lo spazio dei sindacati (cosa che, a parere dello scrivente, è pure una cosa buona).

E anche qui, la rimozione è palese: il sindacato accetta e abbraccia la questione come se fosse un’emergenza del paese, come se non fosse un elemento di distacco dalla sua storia, e le opposizioni si ricompattano.

Il punto non è che le opposizioni trovino una piattaforma comune in alcuni punti, anche di minima; il problema è che lo facciano su punti di così scarsa importanza globale (e su cui hanno una storia opposta). E che non lavorino seriamente alla creazione di una alternativa che possa essere davvero di governo del paese.

La mancanza di una progettualità di fondo, di un progetto di aggregazione che possa governare il paese, ancora più che la storica e cronica mancanza di coerenza, è la vara mancanza che affossa il PD di Schlein. E che non lo rende un partito attrattivo nelle urne.

Andrea Bicocchi
Andrea Bicocchi
Imprenditore, editore de "Lo Schermo", volontario. Mi piace approfondire le cose e ho un'insana passione per tutto quello che è tecnologia e innovazione. Sono anche convinto che la comunità in cui viviamo abbia bisogno dell'impegno e del lavoro di tutti e di ciascuno. Il mio impegno nel lavoro, nel sociale e ne Lo Schermo, riflettono questa mia visione del mondo.

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15 Commenti

  1. Il post è piuttosto esaustivo.
    Aggiungo che a fine 2010 è stata varata una legislazione del TFS da restituire ai lavoratori dipendenti del settore pubblico
    (sarebbe lungo spiegare “perché” è nato l’istituto del TFR, o TFS che sia, nomenclatura a parte, anche se farebbe capire molto dell’accaduto)
    che, salvo errori, pochi giorni fa è stata considerata “incostituzionale” dalla Consulta.
    Aggiungerei che, se ben ricordo negli anni ’90, i Sindacati “acconsentirono” alla (mi si lasci passare questo termine che potrebbe non essere perfettamente appropriato, ma non ne trovo altri), o comunque non mi sembra, posso sbagliare, che scioperarono contro, l’eliminazione della “scala mobile”, quella che all’epoca adeguava, rivalutandoli automaticamente, i salari alla perdita di potere d’acquisto dovuta all’inflazione.
    La motivazione era che, altrimenti, i salari avrebbero rincorso l’inflazione in una spirale perversa.
    Il risultato è che ora gli stipendi degli italiani sono tra i più bassi dei Paesi primi firmatari dell’Euro, e non solo.
    Forse anche per le continue emergenze che nel nostro Paese si susseguono con un ritmo talmente normale e, forse, prevedibile da costituire quasi una anormale normalità che, poi, inevitabilmente, porta alle molteplici richieste di “responsabilità” (sempre rivolta verso i soliti noti, quelli in regola e innocenti delle stesse) per (l’ennesima) emergenza? E che porta spesso a Governi Tecnici.
    E che, comunque, potrebbero portare, per “responsabilità”, al non regolare rinnovo dei contratti di lavoro?
    In questo quadro a me spicca in maniera stridente la richiesta del “salario minimo” per ovviare alla perdita di potere d’acquisto dei salari, proprio perché richiesta in questo momento in cui l’inflazione continua ad erodere il potere d’acquisto degli stessi.
    Cerco di spiegarmi meglio: a che serve fissare, nel momento in cui l’inflazione incide fortemente sul potere d’acquisto dei salari, un salario minimo? Sarebbe forse controproducente dato che, magari, tra qualche mese, il tanto faticosamente guadagnato salario minimo risulterebbe di nuovo inadeguato e insufficiente e, allora, occorrerebbe di nuovo legiferare un nuovo salario minimo.
    Per ovviare a questo occorrerebbe studiare una legge con un salario minimo indicizzato all’andamento dell’inflazione.
    E, allora, in questo Paese dove la nomenclatura forse conta più dei fatti, in pratica, vedremmo il ritorno della tanto (non da me) vituperata ed eliminata “scala mobile”.
    Sbaglio?
    Allora tanto varrebbe ripristinare la scala mobile.
    Vorrei anche, a rischio di sembrare impopolare, fare una noticina al riguardo di alcuni media o alcuni politici che chiedono, se ben ricordo, provvedimenti per chi, avendo contratto un mutuo a tasso variabile, per l’inflazione vede salire la rata.
    Quando io ho contratto il mutuo casa, nel 2007, ho pagato, a tasso fisso, il 5,75%, all’epoca vigente, e continuo a pagarlo (dato che il TFS che sarebbe spettato da anni e mia moglie, col quale, credendo nello Stato di diritto pensavamo di estinguere il mutuo, è stato “sequestrato” nel tempo ed a tranches).
    Domanda: io sono fesso che da allora pago il 5,75% a tasso fisso mentre altri, tino a poco tempo fa, in tutti questi anni pagavano tassi scesi fino all’1,50 variabile?
    Perché fare tanti piagnistei per i poverini che hanno scelto il tasso variabile ben conoscendo i rischi che correvano, e nessun piagnisteo per chi, come me, prudentemente optò per il tasso fisso prevedendo il possibile futuro?
    Vorrei che qualcuno me lo spiegasse.

  2. Dimenticavo di notare che gli aumenti di salario, a mio parere, dovrebbero essere pagati dai datori di lavoro e non finanziati con bonus vari a carico della fiscalità generale: altrimenti, poi, si rischia di ripagare con le imposte necessarie a finanziare i bonus, i bonus stessi ricevuti.

  3. Laddove scrivo che gli aumenti di salario, a mio parere, dovrebbero essere pagati dai datori di lavoro e non finanziati con bonus vari a carico della fiscalità generale altrimenti, poi, si rischia di ripagare con le imposte necessarie a finanziare i bonus, i bonus stessi ricevuti, intendo anche specificare perché, altrimenti, al contrario degli aumenti contrattati col datore di lavoro che divengono strutturali, i bonus non lo divengono.
    In pratica: diritti e non “regali” un tantum!

  4. Mi par di capire che la Schlein faccia di tutto per ”smarcarsi” dai precedenti gruppi dirigenti del partito di cui è segretaria (e di cui è stata pur sempre parte attiva in passato, malgrado l’ ancor giovane età) assumendo spesso posizioni decisamente non in linea e spiazzanti. Scelta politica che solo il futuro potrà dire se azzeccata o non.
    La questione della legge sul salario minimo non è comunque di poco conto. Si tratta di un argomento politicamente popolare non solo in Italia, ma in tutti i paesi europei (inclusa l’Inghilterra) e aldilà dell’Atlantico (USA e Canada). Tali leggi interpellano, infatti, i sentimenti umanitari: si tratta di stabilire per legge una cifra minima che garantisca la dignità umana e la sopravvivenza di fatto della persona, un “pavimento” salariale aldisotto del quale si può parlare di sfruttamento puro e semplice.
    Quando si arriva al punto di legiferare, di stabilire tale cifra, di prevederne gli effetti sul mercato del lavoro e gli impatti economici più generali, entrano in campo due visioni in conflitto: i mercati del lavoro a salari bassi hanno forma COMPETITIVA (domanda e offerta determinano fondamentalmente il tasso salariale) o di forma MONOPSONISTICA (aggettivo di difficile comprensione che sta a dire che esiste spesso una forte asimmetria di potere contrattuale tra le parti: i datori di lavoro hanno tipicamente il potere di determinare le cose – come ad esempio recentemente è emerso in Italia nel caso di una grande catena della distribuzione alimentare e non soltanto). Non si può dire in astratto se, in quali settori o attività e con quale intensità prevalga l’una o l’altra forma, perché è questione eminentemente empirica. L’unico suggerimento che si può dare è che si fissi un minimo prevedendo però una qualche procedura di differenziazione per età, esperienza e località geografica. L’assenza totale di possibilità di differenziazione produrrebbe (con ogni probabilità) i suoi effetti più negativi e brutali in termini di espulsione dai lavori a bassa retribuzione e quindi per certe “minoranze”, per lavoratori giovani e/o senza qualifiche, indipendentemente dalla esistenza di occasioni di lavoro. Proprio le categorie che si vorrebbero tutelare finirebbero per essere le più colpite. Naturalmente la proposta di differenziare il salario minimo definito come sopra può incontrare resistenze anche forti in molti quartieri.

  5. Preciso che il mio commento sul salario minimo non era teso a considerare disinteresse per il problema dei bassissimi salari in Italia, ma era solo teso a precisare che, al posto del salario minimo, io ripristinerei la scala mobile, per il motivo argomentato.
    Inutile dire che, fintantoché, come ho l’impressione, alcuni diano lavoro nero con la solita frase “se ti sta bene è così, altrimenti là fuori c’è la fila”, e non si trovi il modo che ciò sia sempre pedissequamente scovato e sanzionato, quale che sia il salario fissato, minimo, massimo, scala mobile, a tempo determinato, a tempo indeterminato, qualsiasi legislazione risulterà in alcuni casi inutile.

  6. Vi sono alcuni passaggi ben azzeccati nei commenti da parte di Giuseppe che meritano attenzione:
    1) “spicca in maniera stridente la richiesta del ‘salario minimo’ per ovviare alla perdita di potere d’acquisto dei salari, proprio perché richiesta in questo momento in cui l’inflazione continua ad erodere il potere d’acquisto degli stessi”. Perfetta ragione: una cosa è INTRODURRE un livello di una variabile come il salario minimo per legge ed altra è la sua VARIAZIONE per tener conto della perdita di potere d’acquisto a seguito di processi inflazionistici. Francamente mi pare che i proponenti abbiano ancora idee un poco confuse in proposito. Ad esempio ieri la Segretaria del Pd – ma è in buona compagnia – in una intervista a Repubblica, tra le molte idee e analisi lucide circa il progetto, ad un certo punto dice che l’ ”obiettivo che si propone:[è] far fronte al peso dell’inflazione che grava su moltissime famiglie…”. Ciò rivela che non si è ancora messo bene a fuoco il fatto che fissare un LIVELLO di salario minimo fa parte di politiche strutturali e NON anche congiunturali (peggio ancora sarebbe redistributive). Naturalmente al momento della introduzione si può, e si deve, tener conto del contesto inflattivo in cui essa avviene, prevedendo anche le procedure di variazione. Ciò tra l’altro è di gran lunga preferibile rispetto a sistemi automatici di adeguamento come la scala mobile, meccanismo di documentata infausta memoria in Italia.
    2) ben detto poi che “gli aumenti di salario dovrebbero essere pagati dai datori di lavoro e non finanziati con bonus vari a carico della fiscalità generale..” in quanto i bonus hanno, per loro natura, carattere congiunturale e, comunque ,non vanno scambiati “ diritti [con] ‘regail’ una tantum!”.

  7. Vorrei rispondere a Paolo laddove scrive: “… prevedendo anche le procedure di variazione. Ciò tra l’altro è di gran lunga preferibile rispetto a sistemi automatici di adeguamento come la scala mobile, meccanismo di documentata infausta memoria in Italia…”.
    Premesso del tener conto che io non sono un economista, ma ho solo le nozioni base dell’economia di tipo scolastico e pratico per le esperienze di vita e quindi ragiono in base al buon senso, al riguardo del salario minimo la frase “prevedendo anche le procedure di variazione” mi chiedo se sottintenda alla rivalutazione in base all’inflazione; se così fosse quale è la differenza con la scala mobile che, come noto, indicizzava gli stipendi all’inflazione? A me prevedere tali procedure di variazione, se fatto adeguatamente, sembra la stessa cosa che un sistema automatico di adeguamento.
    Per quanto riguarda la frase “… la scala mobile, meccanismo di documentata infausta memoria in Italia…” mi chiedo dal punto di vista, e dagli interessi, “di chi” tale critica sia formulata; in quanto, sempre coi limiti della mia conoscenza in materia, penso che la critica sia giusta o sbagliata (l’economia non è una scienza esatta) a seconda di quali interessi vada a ledere.
    Nel caso poi si voglia sostituire l’azione che svolgeva la scala mobile con qualcos’altro che tuteli gli interessi di tutte le parti in causa, allora mi chiedo quale questo qualcosa sia e, se esiste, perché, dopo aver tolto la scala mobile non sia stato sostituito a tale eliminazione, dato che rimane il fatto incontrovertibile che gli stipendi italiani (a parte quelli cresciuti moltissimo dei dirigenti) sono i più bassi, di molto, tra quelli di tutti i Paesi fondatori dell’U.E.
    Se invece non esiste niente che possa sostituire la scala mobile in maniera equa, allora dobbiamo scegliere tra chi debba pagare le spese della sua eliminazione, se i lavoratori o i datori di lavoro.
    Salvo, se altro non si può fare, che dichiarare fallimento di ogni politica del lavoro.
    Però, peraltro, se accertiamo che la scala mobile, in quanto sistema automatico di adeguamento, sia un meccanismo di documentata infausta memoria in Italia, per coerenza, salvo errori dovuti alla mia non perfetta conoscenza della materia, dovremmo affermare anche che, dato che anche questo mi sembra un sistema automatico di adeguamento:
    sia sbagliata l’indicizzazione e la rivalutazione delle pensioni tutte e, anche questa indicizzazione e rivalutazione, per coerenza, andrebbe eliminata.
    Sbaglio?
    Ma io non sono d’accordo.
    Giuseppe.

  8. Rispetto ai meccanismi automatici (scala mobile) le procedure di contrattazione tra le rappresentanze dei vari attori al fine di variare il livello salariale legale di base hanno due pregi, se ben concepite : 1) reintroducendo una qualche contrattazione, consentono adeguamenti ritagliati sulle realtà settoriali (non però di impresa!) e geografiche ( come molti addirittura auspicano anche al momento stesso dell’introduzione del livello minimo); 2) in tal modo, più difficilmente gli aggiustamenti portano ad effetti cumulativi non equi e pericolosamente generalizzati (come drammaticamente mostrò l’esperienza degli anni ’70 che portò ad eliminare il congegno automatico).

  9. Mi si potrebbe obiettare che, mentre la rivalutazione automatica delle pensioni è prevista solo per legge non avendo i pensionati una prevista e strutturalmente regolata contrattazione periodica
    – adeguamenti di legge peraltro più volte bloccati o restituiti in maniera incompleta, a seconda delle numerose “emergenze” anormalmente normalmente susseguitesi in Italia –
    per i lavoratori, invece, teoricamente esiste tale contrattazione.
    E’ vero però che, purtroppo, da anni, anzi decenni, tali contrattazioni, che per regola dovrebbero avvenire ogni tot anni, sono state, sempre per le suddette “emergenze” di normale, si potrebbe purtroppo dire, ormai, amministrazione, e conseguente “responsabilità” di chi dovrebbe a ciò provvedere da ambo le parti, nel nostro Paese, sono state un po’ trascurate – per usare un eufemismo -, non sono state eseguite e più volte rimandate; a volte sono state “ritualmente” eseguite con risultati irrisori; come testimonia il raffronto tra gli stipendi italiani e quelli dei maggiori Paesi occidentali.
    Di fronte a tale situazione, quindi, sarebbe bene, forse, prevedere anche in questo caso un meccanismo di adeguamento automatico all’inflazione; e, senza cercare di almanaccarsi con nuove formule e nomenclature per rifilare la solita solfa, ripristinare la scala mobile.

  10. Quanto sopra, naturalmente, riferito ai normali e regolari contratti di lavoro; tralasciando i, purtroppo, probabilmente, sembrerebbe, numerosi casi di rapporti di lavoro in nero: quelli con la classica clausola del “se ti sta bene è così, altrimenti là fuori c’è la fila!”.
    Anche se, ultimamente, sembrerebbe che tale fila si vada assottigliando sempre più; perlomeno finché ci sia un residuo di reddito di cittadinanza, o di pensione di papà o di pensione di nonno.
    Se è così, e lo sembrerebbe, altro che salario minimo: a me sembra che ci siano da rifondare completamente le basi della legale e civile considerazione del significato del lavoro e del rispetto del diritto alla possibilità di una civile e normale programmazione di vita delle generazioni, da troppo trascurata; e del ripristino della “normalità”, senza chiedere chissà cosa, semplicemente, solo il ripristino di quella cosa che esisteva fino a gli anni ’70: lavoro regolato e garantito, a tempo indeterminato e con date certe, e decenti, anche negli importi, di pensionamento, e con versamenti sufficienti s garantire ciò ed il SSN.
    Basta bonus e assistenza dello Stato: paghino i datori di lavoro e non i lavoratori in servizio regolare coi versamenti che dovrebbero servire per la “loro” pensione, o la fiscalità generale e, quindi, anche le imposte necessariamente fatte pagare anche ai lavoratori stessi.
    Nell’interesse comune: perché se non si ha di che vivere non si consuma; e, se non si consuma, la vedo dura, un domani, a scambiarsi beni e servizi solo tra i pochi potenti ricchi rimasti al mondo.
    A parte l’immagine della decenza che si dovrebbe avere in un un mondo perfetto e civile.
    In pratica: basta lavoro in nero.
    Se non si è capaci di fare politiche atte a creare lavoro e sviluppo, non si cianci per assistenza ai poveri; si lasci il posto a chi sappia fare politiche per creare lavoro e non assistenza; per usare un eufemismo.

  11. Ripensando al mio commento, laddove scrivo:
    “… Se non si è capaci di fare politiche atte a creare lavoro e sviluppo, non si cianci per assistenza ai poveri; si lasci il posto a chi sappia fare politiche per creare lavoro e non assistenza; per usare un eufemismo…”,
    mi rendo conto che potrebbe essere frainteso e, quindi, specifico che intendevo scrivere:
    “… Se non si è capaci di fare politiche atte a creare lavoro e sviluppo, parlo in generale, non si cianci per assistenza ai poveri; si lasci il posto a chi sappia fare politiche per creare lavoro e non assistenza; per usare un eufemismo…”;
    e specifico, anche, che la parola “eufemismo” è riferita alla parola “assistenza”.

  12. Mentre rispondevi, Paolo, anche io scrivevo e, così, si sono accavallati i commenti.
    Comunque, come tu scrivi “… le procedure di contrattazione tra le rappresentanze dei vari attori al fine di variare il livello salariale legale di base hanno due pregi, se ben concepite…”.
    E’ questo “se ben concepite” che, temo, possa rappresentare una utopia, anche visto che ridda di contratti regolari o meno ci ritroviamo e, anche, visto “il tipo” dei contratti e il loro funzionamento nella pratica.
    Situazione che a me non sembra idilliaca ma, ammetto, posso sbagliare e, magari, è tutto ben concepito. O, magari, per qualche illuminazione generale, all’improvviso si comincerà a legiferare, ed al far rispettare le leggi, in maniera eccezionale.
    Personalmente sono anche contrario alle gabbie salariali, dando precedenza all’ordine, anche del diritto, che al rincorrere le situazioni in maniera anomala diverse nelle varie regioni del Paese; perché, così facendo, non si sana la situazione, ma la si incoraggia e radicalizza: sarebbe forse un po’ come assecondare una malattia invece che curarla.

  13. Anche perché, al riguardo delle gabbie salariali, abbiamo già la dicotomia della legislazione UE forse, a volte, in contrasto o, comunque, con la pretesa di prevalere rispetto alla legislazione od al sentire nazionale e, se a ciò aggiungiamo anche una differenziazione delle regole tra le varie regioni italiane…

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