Oggi si sono tenute le esequie di Don Idilio nella chiesa parrocchiale dell’Arancio. Una chiesa gremita ha così salutato il suo parroco morto improvvisamente, forse per un attacco di cuore, nella notte tra giovedì e venerdì.
Di Don Idilio porto un ricordo particolare. L’ultima volta che abbiamo cenato insieme. Era una cena parrocchiale organizzata un paio di mesi fa nei locali di San Filippo. Eravamo insieme al tavolo e c’erano anche altre persone. Ad un certo punto decido di provocarlo e gli chiedo: “Don Idilio, cosa bisogna fare per essere buoni cristiani, per rispondere alla nostra vocazione di laici?”.
Mi disse che avremmo dovuto essere fedeli alla nostra vita e alla nostra vocazione conducendo la nostra quotidianità con fede e coltivando la Parola.
Ho sempre pensato che il nostro atteggiamento sulla fede sia un po’ come la preoccupazione degli inglesi nel parlare: la paura dell’imbarazzo e la conseguente decisione di essere riservati perché è il modo per non essere inopportuni e non finire in situazioni complicate. Per questo, per reazione a questo modo di porsi che inibisce il parlare chiaro, su tali argomenti sono diretto. Cominciamo così a discutere sul ruolo del cristiano laico nella Chiesa e sul tema dell’annuncio della Parola. Le posizioni erano abbastanza distanti: lui insisteva molto sul ruolo e la centralità della comunità (parrocchiale, diocesana…), io molto di più sul ruolo del clero come rappresentante di Dio tra di noi. Io gli dicevo che un sacerdote che dice Messa, anche senza comunità con sé, per quanto triste possa essere l’immagine, ha la pienezza del messaggio di Cristo e che il sacerdozio è una trasmissione per tradizione, mentre il laico, senza sacerdote, non ha possibilità di celebrare sacramenti e non ha più quella continuità con il mandato di Cristo. Lui mi ribatteva che il Concilio ha chiarito che la comunità è il centro della vita cristiana e che senza la comunità non c’era più nulla da trasmettere.
Il nostro dibattito scivolò così sul significato del concilio e del sacerdozio, di quello comune dei laici e di quello ministeriale, sull’obiettivo della vita laicale e su cosa dovrebbe fare la Chiesa e il clero per guidare (dicevo io) o per lasciare campo libero ai laici (diceva lui).
La discussione fu lunga e animata come possono esserlo solo le discussioni su temi che sono vissuti come veramente importanti. Gli animi si scaldarono; la contrapposizione fu anche accesa. Tanto accesa che qualcuno degli astanti si sentì in dovere di chiederci di abbozzarla e di cambiare argomento.
Fummo costretti da cortesia ad interrompere il nostro scambio di vedute senza che potessimo trovare un punto di vista condiviso, e forse non lo avremmo trovato neppure se non ci avessero chiesto di interrompere.
Eppure, dopo quel giorno, una relazione amichevole e tranquilla, divenne ancora più aperta; ancora più attenta. Le parole tra noi (non molte in verità visto che il tutto è avvenuto non troppo tempo fa) più serene; i sorrisi più aperti; gli sguardi più intensi.
È quello che accade quando due persone si avvicinano davvero; quando parlano con sincerità e a cuore aperto. Perché parlando a cuore aperto succede che ci si tocca il cuore. E questo cambia il modo di vedere le cose, di sentire l’altro e di vedere noi stessi.
Quel giorno, con Don Idilio discutemmo. Quel giorno, non trovammo una visione comune su cose che, per noi, erano importanti. Eppure, quel giorno, ci avvicinammo come non avevamo fatto in diversi anni.
Oggi, nella celebrazione del “dies natalis” di Idilio Sacerdote, ho ricordato tutto questo. E auguro a ciascuno di noi di fare «discussioni accese» con molte persone come quella che ho avuto quella sera di ottobre con lui.