La discussione sull’immigrazione ha sempre creato una divisione nella cittadinanza. Si dice che è un dovere accogliere chi è in difficolta; si ricorda come noi italiani siamo stati emigrati (in Europa, in Sud America, negli Stati Uniti, ecc.); si fa presente che chi si muove per cercare un futuro è un soggetto debole che ha bisogno di aiuto. Sempre più spesso si sottolinea che una popolazione che invecchia, la nostra, ha vitale bisogno di nuova linfa e l’immigrazione ha un’età media bassa.
Tutto questo è vero. E questi sono gli argomenti dei «buoni».
Poi ci sono quelli che esprimono dubbi sulla possibilità di accogliere senza calmierazione. Che, per la comunicazione main stream, sono i «cattivi». Quelli che se ne fregano degli altri; che sono razzisti e non vogliono gli stranieri (magari non vogliono neppure i «terroni»); che ritengono che gli immigrati vengano a «rubare» il lavoro agli italiani; che sono un costo che non c’è motivo di affrontare e che dovrebbero risolversi i problemi a casa loro.
E, indubbiamente, una parte della popolazione la pensa più o meno in questo modo.
Eppure è innegabile che una riflessione più profonda debba essere fatta.
È un fatto che nessuna nazione può gestire una immigrazione non controllata. Non lo fecero gli Stati Uniti ed avevano un intero continente da colonizzare. Difficile immaginare di poterlo fare noi europei. I problemi sono due. Uno di carattere economico ed uno di carattere sociale.
Il primo è che le analisi sull’opportunità economica dell’immigrazione sono a dir poco superficiali. È vero che siamo una popolazione che invecchia ma il grosso dei lavori che possiamo generare sono ad un livello di qualificazione che non incontra granché l’offerta migratoria. Perché una parte assai consistente dell’immigrazione, soprattutto clandestina, è senza qualifiche, talvolta senza neppure alfabetizzazione o con una formazione insufficiente. In gran parte non conosce la lingua e non è in grado di svolgere i lavori disponibili. Per poterli impiegare andrebbero formati, spesso per anni. La loro presenza diventa quindi un aggravio di costo pubblico e di progettazione sociale, argomento su cui non brilliamo. Inoltre l’incapacità di gestire un flusso importante di persone le porta a vivere in condizioni degradanti e diventano un fattore di insicurezza sociale.
Queste sono tutte osservazioni significative e su cui sarà opportuno tornare successivamente ma il secondo ordine di problemi è più significativo di questo. Il secondo ordine di problemi è quello culturale-sociale.
Una nazione è il risultato di una cultura e di un modo di vedere le cose. Si costruisce attorno ad un sentire comune, a comuni valori e a consolidate idee del mondo.
È vero che il nostro sbandamento culturale è palese. Che non siamo più neppure in grado di dire che cosa ci identifica. È vero anche che abbiamo accettato l’idea che non esiste una cultura buona e una cattiva. Che semmai consideriamo la nostra come cattiva. Che riteniamo di non dover imporre nulla ma accogliere le altre culture con un rispetto afono e incapace di marcare differenze e difendere il nostro modo di vivere e pensare.
Ma il tessuto sociale è fatto da alcuni temi su cui ci sia una quasi unanimità di sentire. E ingenti flussi di persone potrebbero distruggere questi equilibri.
Che succederebbe se si venisse a costituire una maggioranza, oa anche solo una consistente minoranza rumorosa, di cittadini che è favorevole ad una teocrazia di tipo islamico? O che chiedesse a gran voce, in ossequio al diritto religioso, di poter accedere ad una poligamia mediorientale? Che succederebbe se volessero imporre l’hijab alle donne, magari a quelle sposate con un rito religioso arabo?
Generalmente allontaniamo da noi anche solo il pensiero di tutto ciò dicendo che le comunità arabe che sono presso di noi hanno accettato questo nostro modo di vivere. E questo è assolutamente vero. Hanno accettato la democrazia, i valori del rispetto delle donne e dell’uguaglianza dei sessi. Che, in fondo, i vantaggi del nostro stile di vita hanno prevalso e che, una volta che sono entrati nel nostro mondo, loro hanno perso quelle caratteristiche che sono così lontane da noi.
Ma questo, implicitamente, vuol dire che pensiamo che la nostra cultura, il nostro stile di vita, sia migliore e, per questo essere migliore, sarebbe naturalmente adottato. «Noi» non abbiamo neppure il coraggio di definire questo nostro modo di vivere più avanzato e più civile ma poi diamo per scontato che «loro» debbano sceglierlo qualora venissero da noi.
E qui sta il problema: non è così. Se aprissimo in modo massiccio all’immigrazione apriremmo in modo massiccio a modi di vedere la vita che sono incompatibili con il nostro. Apriremmo all’idea che la teocrazia, per tornare ad un esempio sopra, sia una forma legittima di governo perché nella loro cultura è così. E perché, nei paesi da cui provengono, la maggioranza delle persone la pensa in quel modo. È ingenuo pensare che in Egitto o in Libia o in Libano, per restare vicini a noi, la maggioranza della popolazione sia democratica piuttosto che teocratica. O che anche solo la maggioranza delle donne pensi che l’hijab sia offensivo per la dignità delle donne. Se esistesse una tale maggioranza, le cose cambierebbero. Ma non stanno cambiando.
Aprire senza integrare è un errore. Siamo ancora più espliciti: aprire senza «assimilare» è autodistruttivo. Non possiamo aprire senza porci il problema di assimilare a noi coloro che arrivano. Certo un’assimilazione rispettosa, non violenta, ma, indiscutibilmente, assimilazione. È l’unico modo per aprire senza perdere quello che siamo, quello che abbiamo costruito. E magari riuscendo pure ad arricchirlo e migliorarlo.
A differenza di quanto hanno detto le forze populiste (Lega e M5S soprattutto) in questi anni, l’immigrazione è un fenomeno che non può essere cancellato. Ma nessuna forza politica che voglia dirsi seria può prendere il problema sottogamba e non governarlo. Non lo fa il PD che fece le leggi per finanziare i centri di trattenimento in Libia, anche se poi non ama ricordare al proprio elettorato (e forse neppure alla propria coscienza) che non possiamo accettare un numero illimitato di immigrati. E non lo fa la destra di governo (FdI e FI) che, da una parte hanno aumentato i flussi di immigrazione legittima (e questo non ama ricordarlo al suo elettorato), mentre dall’altra ha spinto per un contenimento dell’immigrazione clandestina anche attraverso il ricorso al respingimento.
Si può legittimamente non condividere le singole norme di destra e sinistra. Si può legittimamente esprimere dubbi sulle scelte e sui canoni comunicativi. Ma davvero dobbiamo ritrovare un modo serio e approfondito per parlare del tema che consideri come queste persone possano venire da noi in un modo che non sia distruttivo per noi e per loro.
Foto di Amaury Michaux