Partiamo dai fatti: a Forte dei Marmi, lunedì scorso, 7 luglio, in una caldissima giornata d’estate, si è consumata una tragedia infinita. Un ragazzo, una giovane vita di 18 anni, si è spezzata sotto gli occhi degli amici disperati, increduli, inermi. Insieme dovevano passare una giornata di mare, divertimento, spensieratezza.
Sensazioni che solo quando si è poco più che adolescenti si possono provare. Ancora ricordo che a quell’eta, tutto ciò che ci circondava aveva un sapore più forte, zeppo di occhi sognanti, emozioni, curiosità della vita, energia. Sembrava che il presente non potesse avere fine e che i pericoli non esistessero.
Invece sì, esistono. Basta superare la soglia del buon senso, del perimetro che quelli più grandi di noi misurano con i loro consigli, troppo spesso scambiati come invettive da boomer, e può accadere che qualcosa vada storto o ci condanni per sempre. A volte togliendoci addirittura il privilegio della vita.
È accaduto a Jones, ghanese di 18 anni, calciatore in erba, che in Italia aveva ritrovato la speranza e la dignità, un ragazzo come tutti gli altri. Pronto a sfidare il mondo.
E lo ha sfidato, probabilmente giocando, ma nel modo sbagliato. Poteva essere una semplice bravata, un video da pubblicare su Tik Tok, qualcosa che era già stato provato in passato. E doveva finire con un risata generale, un applauso e qualche abbraccio con gli amici. Jones invece, dopo il volo dal pontile di Forte dei Marmi, è andato giù, sott’acqua. Il tempo di chiedere aiuto ed è scomparso, inghiottito dalle correnti che in quel punto sono irregolari, proprio per la costruzione della passerella insabbiata.
Sono anni che il divieto è scritto ovunque, comunicato sulla stampa, spiegato dagli amministratori nelle occasioni pubbliche. Non solo a Forte dei Marmi, in tutta Italia. Il problema del tuffo dal pontile riguarda le principali stazioni balneari. Ne è prova l’episodio accaduto il giorno prima a Jesolo: un ragazzo di 19 anni, tuffandosi dal pontile ha riportato lesioni gravissime alla colonna vertebrale che probabilmente non gli permetteranno più di camminare. Un altro dramma assoluto.
È sufficiente voler provare il brivido del proibito per mettere a rischio la propria vita? Ecco, questo mi domando oggi mentre leggo le notizie di questi due ragazzi, esattamente come siamo stati anche noi nemmeno moltissimo tempo fa. Perché, se è vero che sono passati più di vent’anni, a me sembra ancora di essere con un piede in quella dimensione di freschezza e non vorrei passare da censore o da zio severo, perché in realtà mi sento ancora come loro, piango come i loro amici, ma comprendo il senso di resa disperata di un genitore che perde un figlio così, per un niente, per un gioco.
Dove dobbiamo migliorare quindi? Nella comunicazione. Perché non possiamo condannare totalmente un ragazzo se vuol registrare un video mentre fa un tuffo dal pontile consapevole del pericolo che sta correndo, anche noi abbiamo fatto cose sbagliate a quell’età. Non possiamo condannare i genitori, i professori, i grandi. Nessuno ha una colpa specifica.
Ciò che dobbiamo cambiare è la comunicazione che oggi ci tiene distanti anni luce. Quella dei ragazzi è una lingua diversa dalla nostra. Parlano come i loro beniamini, come questi trapper smidollati senza identità che ribaltano i valori del bene e del male, raccontano storie di gang, rapine, cocaina, narcos. Dall’altra parte noi, i non più giovani, sempre a dire che i nostri tempi erano migliori di quelli di oggi, che ascoltavamo musica migliore, che mangiavamo la carbonara autentica e non il sushi, che Ronaldo era meglio quello dell’Inter, che il sabato sera indossavamo la camicia. Il risultato è che non ci parliamo e, soprattutto, che nessuno disposto ad ascoltare questi ragazzi che sì, forse non capiscono più qual è la soglia del pericolo, ma se nessuno glielo spiega con il loro linguaggio come possono capirlo?