Il centrodestra sta partorendo la prima finanziaria. Una finanziaria in corsa (mai prima un governo è stato nominato dopo elezioni autunnali che non hanno lasciato un gran che di tempo per preparare la legge di bilancio) e segnata dall’emergenza di inflazione e costi energetici che si è mangiata quasi tutto lo spazio di bilancio di quest’anno. È quindi evidente che il “segno politico” che si è andato a dare è limitato e andrà valutato anche nel tempo. E, del resto, è anche un bene che il governo di un paese abbia, ameno all’inizio del suo mandato, un “respiro lungo” e non sia preso dalla frenesia di segnare punti sull’opinione pubblica. Perché, si sa, le cose migliori richiedono tempo e i colpi d’effetto, appunto, colpiscono l’elettorato ma raramente producono frutti buoni nel lungo periodo. Sappiamo bene quanto siamo stati deficitari di politiche di lungo respiro negli ultimi (circa 20?) anni.
Detto questo la finanziaria ha comunque messo alcuni punti in luce. Punti che, ragionevolmente, saranno sviluppati meglio nel corso del prossimo anno e con la finanziaria successiva. Vediamoli.
Il primo è la separazione tra aiuto alla povertà e supporto al reinserimento nel mondo del lavoro. L’idea di fondo è che un reddito vada dato solo a chi non è veramente in grado di lavorare. Mentre chi è in grado di farlo, deve essere spinto a rientrare nel mondo del lavoro. Quindi due percorsi diversi, identificati in modo chiaro. Almeno nelle idee. Perché poi si dovrà vedere come queste idee possono trovare una attuazione pratica. È in effetti molto difficile riuscire a capire come distinguere chi è irrimediabilmente perso al mondo del lavoro da chi non lo è. E il sistema dei centri per l’impiego non si fa certo notare per la brillantezza dei risultati nell’ intercettare i fabbisogni di lavoro delle aziende per proporli ai disoccupati. Mentre, per quanto riguarda la formazione professionalizzante finalizzata al reinserimento, le cose non vanno poi meglio. Quindi, passare dalle intenzioni ai fatti, sarà complesso.
La complessità e difficoltà del progetto, persino la sua eventuale improbabile attuazione, nulla toglie al principio che si vuole stabilire. Troppo spesso viene proposta la strampalata tesi che, se un principio non è di pratica e immediata attuabilità, allora non merita neppure di essere discusso e, meno che mai, professato. In realtà, i principi guidano le nostre azioni e difiniscono la base del contratto sociale su cui si fonda uno stato. Definiscono ciò che riteniamo giusto o sbagliato, accettabile o non accettabile. Definiscono, in una parola, la nostra cultura che, a sua volta, definisce i nostri comportamenti. Per questo ritengo che sia molto importante aver affermato che chi è in grado di lavorare deve lavorare. Che non è possibile accettare che il lavoro sia una specie di scelta di vita: una cosa che molti fanno ma che qualcuno, seppure con qualche limitazione, potrebbe non fare optando per una scelta “alternativa”. E che la richiesta di solidarietà non è confondibile con la furbizia. O, se si vuole, che la solidarietà da dare deve essere commisurata alla effettiva necessità.
Il secondo punto è l’estensione della Flat Tax agli 85’000,00 € per i professionisti. Questa seconda misura è, almeno, controversa: da una parte va nella direzione di un abbassamento delle tasse (il che è difficile dire che sia un male) ma dall’altra amplifica la distanza tra parti del tessuto sociale. Da una parte chi ha una partita IVA e dall’altra chi non la ha. La ratio, spiegata, è che si vuole intervenire su una parte della popolazione che è più orientata all’evasione e questa norma dovrebbe ridurne la propensione all’infedeltà fiscale. Dall’altra, il segnale che chi è più infedele paga di meno per convincerlo a pagare qualche cosa è pessimo. Anche qui, seppure in direzione contraria con un segno negativo, vale quanto detto sul messaggio ideale che conta anche di più di quello materiale.
Più sfumato il discorso sulla “pace fiscale”. In questo caso, infatti, si tratta di cartelle di modesta entità e vecchia data. Sono quindi, in massima parte, cartelle che non sono realmente esigibili per una grande varietà di motivazioni ma che costituiscono un muro di inefficienze e arretrato di lavoro per l’agenzia delle entrate. Le limitazioni messe, in questo caso, non paiono incentivanti a spingere i contribuenti a evadere o a non ottemperare ai propri obblighi per il futuro.
Anche per il tetto al contante pare difficile capire il senso della polemica seppure il messaggio che traspare non è particolarmente responsabile. È vero che l’uso del contante riguarda soprattutto persone anziane. Il tetto costituisce sì un limite all’evasione, ma è di tutta evidenza che non è un muro invalicabile e che, maggiore è l’evasione, più facile è trovare escamotage per superare il problema di contante.
Altro pilastro della manovra un passaggio di quota 103 (con buona pace di Salvini che cerca di chiamarlo “avvio di quota 41”). Questo è un contenuto più o meno fisso di tutti i governi, di destra o di sinistra: strizzare l’occhio alla popolazione pensionabile molto attenta alla politica e ai propri interessi. Trovo che sia poco comprensibile il perché non venga fatta una “operazione verità”: mostrare cioè il saldo tra contributi versati e pensioni pagate per ciascuno, corredato all’attesa di vita media (e quindi dal costo atteso di pensione per lo Stato) e agli effetti sui conti delle reversibilità pensionistiche. Oggi stiamo ancora pagando pensioni che non sono state sostenute da versamenti adeguati e le pensioni che verranno non sono sostenibili con i versamenti attuali se non si andrà ad alzare l’età pensionabile. Nessuno gradisce l’argomento, e questo è facilmente comprensibile, ma tutti sappiamo che le risorse non si trovano sotto i sassi e che quello che manca al conto lo dobbiamo mettere tutti noi con le tasse. Sarebbe saggio cominciare a fare i conti con la realtà invece che mettere la testa sotto la sabbia contando su una qualche indefinibile futura soluzione. Anche perché la futura soluzione potrebbe essere anche quella che, se mancheranno i soldi, le pensioni verranno ridotte e allora sarà troppo tardi per metterci una pezza.
Infine assegno unico e interventi per i dipendenti (bonus incentivi e cuneo fiscale). Sono misure pensate e tagliate attorno ai redditi bassi e medi che sostituiscono la maggioranza dei salari italiani. Misure dall’effetto contenuto e che possono essere persino disincentivanti se non se ne garantisce la stabilità nel tempo (un imprenditore che mette 3’000 € di incentivazione, esentasse, verso un dipendente ci penserà bene sopra se non dovesse essere convinto che, l’anno prossimo, potrà fare lo stesso senza dover spendere il doppio).
In tutto questo quello che stupisce è che la manovra è tagliata intorno ai redditi bassi e medi. E che questo è quello che la Presidente del Consiglio rivendica apertamente. Cioè, quello che stupisce è che, con qualche ragione, il centrodestra rivendica di aver fatto una finanziaria più a misura e protezione dei ceti più deboli di quanto non ha fatto il centrosinistra.
In questa direzione vanno le limitazioni al bonus 110% (un orrore anche comunicativo con l’idea che lo Stato possa dare persino di più di quanto è stato speso) che introducono delle limitazioni di reddito per le tipologie di case più probabilmente possedute da persone abbienti se non ricche; le limitazioni all’idea che ci possa essere una parte di popolazione che vive alle spalle degli altri senza una specifica motivazione; gli interventi di rafforzamento di bonus famiglie e sostegno ai redditi.
E stride che l’opposizione non abbia avuto il coraggio di mettere in discussione gli elementi effettivamente discutibili della finanziaria, preferendo concentrarsi su quelli marginali. Così si attacca il tetto al contante (misura degli effetti assai marginali) e le modifiche al reddito di cittadinanza (che viene modificato più che abolito e per cui era ampiamente riconosciuta la necessità di importanti correttivi), mentre si glissa sul resto, rendendo così impossibile una base programmatica che possa unire le opposizioni. È imbarazzante, se non il silenzio almeno la scarsa verve comunicativa, che ha accompagnato l’innalzamento a 85’000 € della flat tax o quota 103. Si tratta infatti di potenti constituency elettorali a cui anche il centro sinistra guarda con piacere.
La difficoltà di una opposizione di sinistra che poco o nulla si caratterizza per i temi della sinistra popolare e molto ha a che fare con i privilegi e gli interessi e anche la cultura delle ZTL è così comprensibile.
Nella sua analisi,come sempre per lo più condivisibile, manca però quello che a mio parere è uno degli elementi maggiormente negativi, la riduzione dell’adeguamento delle pensioni sopra quattro volte il minimo all’inflazione. Allora, una pensione quattro volte superiore al minimo significa circa 2.400 euro mensili. Ma attenzione, non si dice che si tratta della cifra lorda, per cui il netto si aggira sui 1200/1300 euro, che costituiscono il livello appena sopra la soglia di povertà . Intendiamoci, è una misura che va avanti da anni e anni, mi sembra che ad introdurla fu il governo Monti. Ma fino allo scorso anno quando l’inflazione era a livelli bassissimi, quasi pari a zero, era scarsamente rilevante. Ora però con l’inflazione a due cifre, il salasso diventa notevole, non solo, ma la finaziaria ha addirittura accentuato in maniera consistente i tagli. Tutto ciò nel più assoluto silenzio di tutti. Tanto si sa, i pensionati non possono scioperare.
Massimo Di Grazia