I ragazzi della rivista Contrasti ospiti al Festival Libropolis di Pietrasanta: “Nel giornalismo sportivo attuale il problema è la narrazione, il compromesso, quello che i giornalisti sono costretti a scrivere”

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I ragazzi di Contrasti – rivista sportiva online nata circa quattro anni fa – stanno cercando con successo di cambiare le prospettive con cui osservare e vivere lo sport. Stanno cercando, in particolare, di valorizzare il valore culturale e sociale del calcio, sport nazionale per eccellenza. Abbiamo parlato di questo e molto altro con Andrea Antonioli, Direttore editoriale della rivista, che sarà ospite del Festival dell’editoria e del giornalismo indipendente Libropolis che si terrà a Pietrasanta dal 9 all’11 Ottobre.

Antonioli, buongiorno. Com’è nata l’idea di “Contrasti” e cosa c’è dietro la necessità di raccontare lo sport in maniera così anticonvenzionale?

Buongiorno a voi e grazie. L’idea di Contrasti ci venne quattro anni fa semplicemente osservando lo stato del giornalismo sportivo italiano: tra il modello strappaclick tutto gossip, titoloni e calciomercato e la deriva ultra-specializzata da “nerd del calcio” fondata su tattiche, statistiche ed expected goals, nessuno secondo noi riusciva a restituire l’essenza profonda dello sport. Lo sport è identità, territorio, tradizioni; è un rito tra sacro e profano, “culturale” nel senso etimologico del termine. Per usare le parole dell’ottimo giornalista e scrittore Simon Kuper, è uno straordinario fenomeno sociale. L’idea di Contrasti ci è quindi venuta innanzitutto capendo ciò che non eravamo e ciò che non volevamo, per citare invece Montale; e poi leggendo molto, tanto la letteratura sportiva quanto soprattutto gli “intellettuali” prestati allo sport, da Pasolini a Buzzati, da Saba a Gianni Brera che poi fu in grado di fondare un vero e proprio linguaggio sportivo in Italia. Diciamo che nella nostra logica, forse malata, siamo noi quelli normali.

Più che essere politicamente scorretti, voi siete contro il politicamente corretto a ogni costo. Ma secondo lei, di fronte di questa retorica dilagante che sta impregnando anche il mondo del pallone, la gente che sensazioni ha?

Allora, qui torniamo al solito punto. L’agenda dettata dalla narrazione ufficiale viene rigettata da milioni di persone come un corpo estraneo. Certo, via via i padroni del linguaggio e dei mezzi d’informazione hanno spostato sempre più in là il limite, facendo passare con gli anni concetti che prima sarebbero risultati ai più indigeribili. Tuttavia, nello sport come in politica, è nata una resistenza “culturale” che a forza di subire ha poi reagito anche in maniera scandalosa e a tratti imprevedibile. Da Trump a Brexit, passando per i nostri gialloverdi e tanti altri, c’è stata una reazione popolare del cosiddetto basso che non sopportava più l’insopportabile narrazione ufficiale dell’alto. Ormai non si può più pensare e parlare liberamente, e chiunque provi a mettere in discussione la vulgata progressista (o per loro sarebbe meglio dire progredita) è un retrogrado fuori dalla storia, un reazionario nostalgico, un fascista e magari anche un razzista. Il problema è che hanno fatto diventare milioni di persone troglodite, razziste e fasciste, e queste hanno poi necessariamente cercato rappresentanza altrove. Come disse un caro amico pensionato in Umbria: «io ho sempre votato comunista, ma quando parlavo al bar fino a qualche anno fa andavo bene; ora sono diventato di colpo un fascista. La verità è che io sono sempre uguale, vivo qui da 75 anni e ho sempre lavorato qui, sono loro che sono diventati degli stronzi. E allora tanti saluti». Non fa una piega. Noi cerchiamo di dare voce, sportivamente, anche a queste persone prima lasciate orfane e poi denigrate dal giornalismo sportivo ufficiale.

Cosa c’è che proprio non va nel calcio moderno?

Qui ci vorrebbe un libro. Fermiamoci al nucleo stesso del calcio moderno, senza neanche tirare in ballo l’aspetto finanziario ormai preponderante. Il principale problema del calcio odierno è che viene venduto come un prodotto, come un bene di consumo, e dunque il calcio ha subito un processo di spettacolarizzazione (di deriva americana) per cui lo sport deve ormai identificarsi con l’intrattenimento. È uno sport sradicato, “spoliticizzato” nel senso ampio del termine, commerciabile e che proprio per questo perde il suo carattere di sacralità. Così i tifosi diventano spettatori esterni o ancor meglio consumatori, e si smarrisce tutta quell’essenza di fenomeno sociale di cui parlavamo prima.

Cosa ne pensa dell’attuale livello del giornalismo sportivo in Italia?

Credo che il problema non sia tanto il livello (nella vecchia guardia ci sono dei bravissimi giornalisti sportivi, che ci hanno insegnato e continuano ad insegnare tanto). Il problema è la narrazione, il compromesso, quello che sono costretti a dire e a scrivere. Nel calcio ad esempio i conflitti d’interesse, secondo me, pesano ancora di più che in politica. Se poi ci aggiungiamo un linguaggio pensato per lo spettacolo, per il “calcisticamente corretto” (Vladimir Dimitrijevic) e per gli istinti più immediati dei tifosi, ecco che in queste circostanze si annacquano anche i migliori – quando non vengono messi direttamente da parte.

Qual è oggi – nella società tecnologica e globalizzata – la funzione sociale del calcio, sport popolare per eccellenza?

Bella domanda. È inutile nasconderselo, oggi la funzione sociale è svuotata e ridotta al minimo, e credo che sia un processo difficilmente reversibile nei prossimi decenni. Il calcio non è più uno sport rituale di popolo, e questo si vede sia uscendo per le strade e notando quanto i vicoli, le piazze e i parchi – un tempo frequentatissimi da ragazzi che giocavano a pallone – oggi siano deserti, sia osservando l’evoluzione del ruolo del tifoso, sempre più marginalizzato e represso. Ai giorni nostri il calcio rappresenta ormai un’evasione, una piccola oasi di serenità grazie alla quale sopportare le fatiche di un lavoro sempre più disumano. Una distrazione necessaria per rendere un po’ più viva la nostra vita, ma a livello popolare temo nulla più di questo. Resta la fede, il tifo. Questa sovrastruttura che resiste ostinata e contraria allo spirito del tempo, e che dimostra quanto l’uomo sia un “animale rappresentativo”, come diceva Wittgenstein, e quanto abbia bisogno di narrazioni sovraindividuali in cui inerirsi. Morto Dio, messe in soffitte le grandi ideologie, scomparsa in buona parte la morale, resta il tifo. Non a caso esso è diventato molto più individualista di prima, ed è proprio l’individualismo esasperato ad aver svuotato religione, etica, politica.

Mi fa il nome di un personaggio sportivo contemporaneo di cui ha stima?

Faccio due nomi “interessati”: il primo, da romanista, è Daniele De Rossi. Persona molto intelligente, sensibile e mai banale, vero capitano giallorosso. Il secondo è Julio Velasco, che parteciperà al nostro evento di Libropolis su calcio e geopolitica. Scherzi a parte, Velasco è davvero un grande, e il fatto che abbia accettato il nostro invito ci onora.

Giovanni Mastria
Giovanni Mastria
Nato a Lucca, classe 1991. Scrivo con passione di cultura, attualità, cronaca e sport e, nella vita di tutti i giorni, faccio l’Avvocato. Credo in un giornalismo di qualità e, soprattutto, nella sua fondamentale funzione sociale. Perché ho fiducia nel progetto "Oltre Lo Schermo"? Perché propone modelli e contenuti nuovi, giovani e non banali.

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