Negli States si sono tenute le elezioni per il Presidente. Come sempre sono state l’evento più seguito a livello mondiale: le elezioni amaricane sono un fatto che, bene o male, influenza la vita di tutti noi.
Da questa parte dell’atlantico praticamente tutti facevano il tifo per Kamala, la delfina di Biden. Lo sconforto per la vittoria di Trump è quindi generalizzato. Per dire, il Corriere della Sera, giornale tradizionalmente di centrodestra ma che negli ultimi anni (anche a seguito dell’acquisizione da parte di Cairo – lo stesso di La7) si è decisamente spostato più a sinistra, è uscito con due editoriali: uno a firma di Aldo Cazzullo che presenta Trump come un errore di strategico dei democratici con conseguenze globali, e uno a firma di Federico Rampini dal tenore non troppo dissimile.
Il punto è che da questa sponda dell’atlantico le cose si vedono deformate. È vero che per Meloni non fa gran differenza chi sia ad abitare alla Casa Bianca: in effetti, se si guarda alle politiche attuate, i democratici americani sono sostanzialmente in sintonia con la nostra destra; i repubblicani, d’altro canto, professano un credo che né la Lega di Salvini né FdI oserebbero mai sostenere.
Qualche esempio: Kamala, da candidata alla presidenza, sosteneva che l’immigrazione debba essere controllata anche con respingimenti alla frontiera e con reimpatri forzati; magari non sparando da un muro alla Trump ma comunque anni luce distanti dalla posizione Dem. Sull’economia la sinistra ha un atteggiamento di espansione liberista più spinta di quella della nostra destra. Sulla sanità l’Obama Care (la riforma sanitaria dei democratici che estende anche ai poveri la copertura universale della sanità) prosegue sul solco delle assicurazioni, con strutture sanitarie e coperture private su un modello a prevalenza privata che da noi sarebbe visto come una proposta da ultradestra; certo più inclusiva di quel sistema che la destra americana vorrebbe ripristinare ma nemmeno per sogno si penserebbero di fare della sanità un sistema pubblico. Ancora, sui conflitti internazionali la posizione democratica è più simile a quella della Meloni che a quella della nostra sinistra. E il senso che danno allo stato federale è basato su principi di appartenenza, riconoscimento del valore che è rappresentato dagli ideali nazionali più che da un soffocante sistema di regole; anche su questo una posizione più a destra della nostra destra e lontanissima da quella delle nostre élite. Potremmo continuare a lungo ma il senso è che è vero che la nostra sensibilità è più vicina a quella dei democratici che a quella dei repubblicani, ma la visione del mondo dei democratici è generalmente molto più a destra di quella dei nostri partiti di centrodestra.
Così l’elezione di Trump è stata presentata come una catastrofe, un profondo vulnus al mondo libero. È davvero così?
Certo non sarà una presidenza che rafforzerà la sua copertura militare in Europa. Il che per noi è un problema. Anche perché i nostri partiti si ostinano a non vedere la sicurezza come una priorità e il nostro instabile e irrequieto vicinato come una minaccia esistenziale. Il riferimento è, naturalmente, alla Russia di Putin e all’Iran con le sue propaggini sciite. Non sono realtà lontane e irrilevanti ma vicine e pericolose. La prima talmente ripiena di atomiche e propaganda da essere un instabile pericolo mondiale; la seconda ormai prossima ad avere una sua atomica e con evidenti mire espansionistiche. Per cinico che possa sembrare, l’Europa senza un esercito forte non avrà una pace stabile: senza armi non si mantiene una autonomia politica e strategica. Perlomeno non ancora in questo momento storico.
Non sarà neppure tanto facile in economia: ci aspettiamo un rafforzamento del protezionismo e dell’espansività a stelle e strisce. Ma, a voler guardare le cose con occhi imparziali, è quello che è comunque successo nei quattro anni della presidenza Biden. Il tutto subirà probabilmente una accelerazione ma non un cambio di direzione.
Il vero problema che la presidenza Trump rischia di creare è che una maggiore spinta isolazionista degli USA possa essere interpretata come una carta bianca da parte di dittatori e potenze aggressive per poter più liberamente dar sfogo ad una visione espansiva e guerreggiante delle relazioni internazionali, soprattutto a livello locale.
Ma ogni crisi è anche un’opportunità. Se questo Aventino americano spaventerà la classe dirigente europea, forse rimetterà in moto una riflessione su chi siamo e sul valore della nostra cultura e della nostra democrazia. E, chissà, magari riusciremo anche a consolidare un processo federativo rinnovato che possa riavvicinare i popoli europei ad una idea di nazione federale che rispetti le autonomie locali e non sembri ispirata ad un incubo legalese.
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