Tutti abbiamo sentito parlare del gen. Vannacci. Tutti sappiamo che è un generale con un grande curriculum militare alle spalle. Almeno così dicono tutti perché, in fondo, nessuno sapeva chi diavolo fosse fino a quando non è scoppiata la bufera.
Il gen. Vannacci: idee politicamente scorrette; tante parole spese per non offrire soluzioni ma solo per dire quello che, a suo giudizio, non va; un uomo che ha saputo curare i suoi affari quando ha deciso che la sua carriera militare era finita.
Scorretto lo è stato evidentemente: se non fosse stato un generale dell’esercito italiano chissenefrega del suo libro. Quindi è evidente che ha strumentalizzato il suo ruolo a fini promozionali per ottenere vendite e, cosa di maggior valore, notorietà.
Ma il successo del nostro gen., il motivo per cui ne parliamo tanto, non è perché ha «infangato» la divisa. È perché quello che ha detto ha trovato una eco nella coscienza collettiva.
Vi ricordate Fantozzi? Era apprezzato perché, nella grettezza sua e dei personaggi che gli ruotavano intorno, abbiamo riconosciuto l’Italia. Non quella che avremmo voluto vedere, ovviamente. Ma era quella che vedevamo.
Il Vannacci questa Italia l’ha vista e gli ha dato voce.
Ha dato voce al dissenso rispetto a tutto quel politically correct che porta a dire cose che non sono davvero possibili né desiderabili. Che impediscono di dire quello che è evidente ma che non si può dire perché altrimenti si viene additati alternativamente come omofobi, retrogradi, machisti, negazionisti, fideisti…
È un Italia, per fare qualche esempio, che non accetta che politica immigratoria coincida con facciamo venire tutti. Che non capisce che cosa stia diventando la nostra cultura tra slang inglese e idee iper-progressiste del tutto è concesso. Che non accetta che la difesa del clima voglia dire che i poveri non arrivano a comprare auto sempre più costose e i ricchi hanno nuove supercar elettriche e quindi «verdi». Che si chiede che cosa significhi il «macigno del debito pubblico» visto che in quarant’anni che è lì non ci è ma successo nulla e perché non è possibile fare debito per una sanità migliore, per andare in pensione, per guadagnare di più.
È un’Italia spaesata che ha più dubbi che certezze, che non ha maestri se non cattivi maestri, siano essi dei maître à penser della sinistra con il rolex che dall’alto di successo e soldi dispensano consigli e brioche come Maria Antonietta ma con la prosopopea di un vecchio saggio, o piuttosto ruspanti araldi delle masse che scalano il potere al grido «uno di noi» e carezzando la parte peggiore degli istinti di popolo promettono ciò che la gente vorrebbe sentire anche se è irrealizzabile.
Il nostro generale si colloca lì. Aspira alla carriera di cattivo maestro e usa efficacemente tutto il suo arsenale di visibilità e suggestione per stimolare una reazione. Contro gli infingimenti della sinistra, certo, ma sospettiamo che se un seggio arrivasse da lì, mettiamo dai 5 Stelle, allora saprebbe ben cantare intonato con la parte che può giovare di più.
Il successo mediatico di questo mondo al contrario è dovuto ad un vuoto.
Questa è l’Italia che non ha più buoni maestri.
Questa è l’Italia che non ha più guide autorevoli.
Questa è l’Italia che non ha più principi saldi e condivisi.
Questa è la nostra Italia.
Lei scrive
“È un Italia, per fare qualche esempio, che non accetta che politica immigratoria coincida con facciamo venire tutti. Che non capisce che cosa stia diventando la nostra cultura tra slang inglese e idee iper-progressiste del tutto è concesso. Che non accetta che la difesa del clima voglia dire che i poveri non arrivano a comprare auto sempre più costose e i ricchi hanno nuove supercar elettriche e quindi «verdi». Che si chiede che cosa significhi il «macigno del debito pubblico» visto che in quarant’anni che è lì non ci è ma successo nulla e perché non è possibile fare debito per una sanità migliore, per andare in pensione, per guadagnare di più.”
Magari il libro si fosse riferito ad una Italia simile: ci sarebbe stato ampio margine di discussione su temi importanti, controversi e che non hanno una unica soluzione.
Ma avrebbe richiesto complessità di pensiero, consapevolezza del mondo e tolleranza.
Purtroppo invece il libello non dà la voce a tutto questo, all’Italia di chi liberamente e nel rispetto esercita il suo diritto di critica e dissentimento, ma è solo un coacervo di concetti superficiali (quanto se non completamente errati, come la tenerezza degli “8000 anni di etnia italiana”) che si limita all’invettiva e all’odio: temo che qualsiasi tentativo di migliorarne l’aura di ammissibilità sia fine a se stesso.