Siamo nuovamente in tempo di finanziaria. E l’argomento è, naturalmente, se ci saranno nuove tasse. Il ché è sempre meglio della domanda se ci saranno nuove regalie fatte con i soldi pubblici. Domanda che era presente in molti dei conversari degli anni del 5S al potere.
Qualche numero aiuta a inquadrare meglio il problema. Il conto spese del bilancio dello stato è di circa 800 miliardi. Di questi poco meno di 100 sono di interessi sul debito, pari a poco più del 10%. Poi c’è la spesa sanitaria che incide per circa 130 miliardi. Infine ci sono le pensioni, che costituiscono la parte più grande delle spese dello stato: oltre 320 miliardi. In totale, queste tre voci insieme valgono circa 550 miliardi su 800. Quindi, queste tre voci pesano per circa il 70% delle spese.
Tutto il resto è dentro i 250 miliardi che avanzano: difesa, scuola e istruzione, ricerca, funzionamento delle pubbliche amministrazioni, gestione e manutenzione delle infrastrutture e trasferimenti a favore di privati e imprese, prestazioni sociali per tutte le categorie deboli ogni altra forma di spesa che lo stato possa avere. Tutto condensato nel 30% del bilancio.
A fronte di 800 miliardi di spese i cittadini sono chiamati a contribuire con poco meno di 700 miliardi. La differenza è il famigerato deficit che significa nuovo debito.
Per capire come mai galleggiamo malamente e non siamo ancora affondati in un mare di debiti vanno considerati alcuni effetti legati a svalutazione e a crescita. Ciononostante, il senso del discorso resta piuttosto corretto anche senza entrare troppo nei dettagli.
Difficile non porsi una domanda su come possiamo sostenere queste tre grosse spese.
Si potrebbe obiettare che le spese pensionistiche sono trasferimenti differiti che dovrebbero essere correlate a versamenti che ciascun lavoratore ha fatto nella sua vita lavorativa e, come tale, non dovrebbero appesantire lo stato. In effetti, se il sistema non fosse stato truccato molti anni fa, le pensioni avrebbero dovuto essere un volano di liquidità dello stato che avrebbe dovuto fruttare risorse e non pesare sul bilancio.
Sfortunatamente, verso la metà degli anni ’80, le prime vere esperienze di politica populista trasformarono il bilancio dell’INPS in un festino elettorale: modificarono il modo in cui veniva fatto il bilancio da un calcolo sugli accantonamenti ad un problema di partite correnti.
Che vuol dire? Che prima il bilancio teneva conto degli accumuli che erano stati fatti e delle spese che avrebbe comportato avere un cittadino come pensionato; dopo il bilancio era valutato confrontando le entrate anno per anno con le relative uscite, guardando cioè le partite correnti. Se in un anno entravano 10 mila miliardi di lire se ne potevano spendere altrettanti. In questo modo si aprirono (per un certo tempo) praterie di spese soprattutto a favore di pensioni facili.
Alzi la mano chi non conosce qualcuno che è andato in pensione a poco più di quarant’anni. E, attingendo alla matematica che insegnano alle elementari, se uno ha versato il 20% del suo stipendio (e una volta si versava pure meno) per 20 anni e poi va in pensione e percepisce il suo intero stipendio per i successivi 40 anni quanto vale la differenza tra quanto ha pagato e quanto ha preso? E, soprattutto chi la pagherà?
Questo è il populismo degli anni di Craxi, di cui abbiamo cercato di dare un quadro in alcuni articoli precedenti. Lo stesso populismo del superbonus, del non porre limiti sulle pensioni, ecc. Il populismo del cercare i pasti gratis. Che poi gratis non sono mai e il conto qualcuno lo paga sempre. E siccome il conto è a nome di tutti, lo paghiamo sempre tutti assieme, nel tempo. Ma quando il politico, volpone di turno, offre i «cotillon» difficile che qualcuno riesca a contrastarlo nelle urne.
E così, anno dopo anno, abbiamo accumulato debiti e spese correnti.
Oggi, se potessimo liberarci dalla metà dei debiti pagheremmo appena un terzo del conto interessi attuale con un risparmio di quasi 60 miliardi (con meno debito non solo si paga meno ma il tasso di interesse scenderebbe verosimilmente di quasi un punto con un risparmio ulteriore del 25% circa).
Per le pensioni il discorso è ovviamente più complesso e tocca nel vivo molte persone ma resta il punto che gran parte delle pensioni sono molto al di sopra di quanto gli ex-lavoratori hanno versato nella loro vita lavorativa. Il che equivale a dire che la differenza ce la devono mettere i lavoratori che sono ancora attivi.
In tutto questo viene da pensare che sarebbe necessario fare dei sacrifici per abbattere il debito presente e recuperare così un po’ di capacità finanziaria per sostenere la crescita del paese. Invece il dibattito in questi giorni (ma è così da anni) è schiacciato tra “noi non mettiamo le mani nella tasche degli italiani” e “bugiardi, voi avete aumentato le tasse” o tra “non avete aumentato le spese” (ad esempio sanitarie) e “abbiamo dato più soldi a chi ha meno” (che sempre maggiori spese sono).
Dare a chi ha meno è importante; lo è anche non gravare senza senso sui cittadini che pagano già oggi anche troppo rispetto ai loro redditi. Però i problemi andrebbero presentati per quello che sono e andrebbe affrontato il toro prendendolo per le corna. E le corna di questo toro sono le tre spese monster che abbiamo visto.
Se non volgiamo toccarle allora dobbiamo credere necessarie nuove tasse. Mentre dire che le tasse devono scendere (e lo dice la maggioranza ma anche l’opposizione) e che le spese devono aumentare (e questo lo dice soprattutto l’opposizione ma questo è naturale) denota una totale mancanza di pudore.
Fonte: Ministero delle Finanze
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Dunque “A fronte di 800 miliardi di spese i cittadini sono chiamati a contribuire con poco meno di 700 miliardi. La differenza è il famigerato deficit che significa nuovo debito.” Il reale significato di deficit e di debito pubblico qui appare nella luce corretta: il settore pubblico conferisce al settore privato (imprese e famiglie) beni e servizi per un valore maggiore di quello che quest’ultimo esborsa al settore pubblico.
La materia contabile nazionale serve in generale, e volendo poi nello specifico, a mettere in evidenza se v’è equilibrio o squilibrio tra le prestazioni reciproche tra il settore privato (tributi) e, quello pubblico (beni e servizi e non soltanto).
I deficit ed il debito pubblico in Italia sono dati cronici, vanno avanti da molti anni. L’evidenza statistica sul debito lordo nominale ci dice che il fenomeno diventa progressivamente sempre più preoccupante (approssimativamente) a cavallo tra la prima e la seconda metà del 1990. A forza di deficit annuali abbiamo accumulato un debito enorme che ad oggi sfiora i 30.000 miliardi di euro https://www.brunoleoni.it/il-debito-pubblico/ e di fatto paralizza ogni azione che voglia dirsi incisiva da qualunque punto di vista (crescita, distribuzione della ricchezza; occupazione, sanità, difesa…). Il corrente dibattito per l’approvazione del nuovo Piano Strutturale di Bilancio (PSB) a Medio Termine è una plastica dimostrazione dell’impasse che si è creata, pur essendo esso per la prima volta poliennale, sulla base di regole europee, e non più annuale.
Di fronte al dato inoppugnabile del cronico disequilibrio tra le prestazioni dei due settori della nostra economia è chiaro che qualcosa non funziona o meglio funziona solo per produrre sistematicamente un tale esito. Importante notare che si tratta di squilibrio interno. Quello verso l’estero -che si traccia con i saldi della bilancia dei pagamenti internazionali- per lungo tempo attivo, è tornato ad esserlo dopo il comprensibile “tonfo” dovuto soprattutto all’epidemia Covid. Non vale l’idea che viviamo al disopra delle nostre possibilità. Il nostro debito è -come dire?- domestico.
Sorge allora il sospetto che nel nostro paese sia attiva una singolare congiunzione “astrale” tra, da una parte, vasti strati della classe dirigente del paese che non ha da tempo, e non ha oggi, una concezione ed un metodo di governo sani e dall’altra parte un settore privato (imprese e famiglie) che, tutto sommato e in maggioranza –il riferimento non è politico– se la passa bene, chi decisamente di più e chi di meno, spesso appena sufficientemente bene grazie alla generosità del nostro Welfare. Questa situazione può essere definita di parassitismo nei confronti del settore pubblico. A completare il quadro si può aggiungere la visione puramente formalistico-procedurale tipica della burocrazia ed in particolare di quella fiscale. In un quadro come questo v’è chi si ingegna ad (ed a far) evadere, eludere, erodere il pagamento dei tributi. Il fatto poi che la nostra sia una “economia aperta” consente a molti di accumulare ricchezze enormi all’estero in paesi fiscalmente ospitali.
In definitiva, mi sembra che vi sia più di un toro da prendere per le corna.