È una forma di follia continuare a fare sempre le stesse cose e aspettarsi sempre risultati diversi.
Lo diceva Albert Einstein.
Questo argomento può essere preso e applicato direttamente anche alla situazione del nostro assetto dello stato. Tutti additiamo, nell’instabilità dei governi, un male antico che deve essere curato. Ma poi rifiutiamo ogni cura perché cambia quell’assetto, quella istituzione, quella guarentigia o chissà cos’altro.
Se non cambiamo nulla, nulla cambierà.
Detto questo, ragioniamo un po’ sul concetto di riforma del Governo dell’Italia. Si tratta di rafforzare il capo del governo in modo che possa davvero chiamarsi «capo». Al momento non è capo di nulla. Neppure la definizione lo pone a capo di qualche cosa: «primo ministro» indica un «primus inter pares», un portavoce o al massimo un coordinatore, non un capo. E infatti: non sceglie la squadra, non licenzia i ministri, non delibera da solo praticamente nulla e non rappresenta lo stato. È un ruolo che ha un prestigio appannato, volutamente ridotto e contenuto.
Volutamente, come detto. Perché quando la nostra costituzione fu scritta, c’erano delle serie preoccupazioni sulla tenuta del sistema. C’erano i fascisti (quelli veri, quelli che avevano governato fino a 5 anni prima, non vaghe imitazioni o persone che nulla hanno a che vedere con quella ideologia e che vengono solo polemicamente o goliardicamente associati a quel periodo) che erano ancora fortissimi e organizzati. E poi c’erano i comunisti che erano molto più pericolosi dei fascisti: i secondi, fuori legge e ai margini della scena politica, non avevano certo vita facile e erano limitati nelle possibilità di scalare il potere; i comunisti erano nel pieno della legittimità politica e organizzati. E avevano la dichiarata intenzione di trasformare l’Italia in uno stato satellite dell’URSS. E già allora era chiaro a molti (anche tra i padri costituenti) che questo equivaleva alla perdita della democrazia.
Per questo tutto è stato fatto in modo che fosse farraginoso, complicato, lento: perché fosse possibile avere un piano B se una volta il centro avesse perso le elezioni. Era tutto impaludato perchè la trasformazione dello stato in una dittatura sovietica (o fascista, il che non è molto diverso) fosse abbastanza lento da essere fermato.
Di tutto questo, però, non restano che le sensazioni e i luoghi comuni di un passato remoto. Oggi il pericolo comunista-sovietico è solo un problema di frontiera esterna, non più una questione di politica interna. Oggi il fascismo non è più una ideologia che ha né un seguito interno né una fascinazione internazionale. È solo una macchia nera della (nostra) storia.
Quindi dobbiamo valutare se la debolezza dei governi è un vantaggio per la situazione in cui viviamo oggi. Se possiamo permetterci di avere dei governi che non durano mai più di due anni. Se questa fragilità sia più dannosa che portatrice di una qualche sicurezza per i cittadini.
Io penso che sia necessario dare ai governi un orizzonte di 5 anni. È l’orizzonte giusto: non troppo lungo per non consentire che il potere si incrosti, non troppo breve per non impedire delle politiche di respiro. Che poi è l’orizzonte che è indicato (ma non raggiungibile) nella nostra costituzione e previsto in quasi tutte le altre costituzioni dei paesi democratici. Ma per raggiungere questo orizzonte ci vuole un diverso assetto istituzionale. Cioè dobbiamo fare una riforma, quale che sia, che rafforzi il capo del governo.
Si può scegliere: cancellierato tedesco, premierato all’italiana (quello proposto dal centrodestra), semipresidenzialismo alla francese o presidenzialismo. Personalmente preferirei i modelli semipresidenziale o presidenziale: più chiari, più efficaci, più responsabilizzanti. Ma vanno bene anche le forme più attenuate di cancellierato e premierato.
L’unica cosa che non possiamo permetterci è di restare a guardarci l’ombelico trastullandoci con vacue preoccupazioni come quella che “si lede il ruolo del capo dello stato” o “si alterano gli equilibri dei poteri”: tutte cose vere; tutte cose scontate; tutte cose che devono essere intaccate se non vogliamo “continuare a fare le stesse cose aspettandoci sempre risultati diversi” ricadendo così nella definizione di folli.