Dalle cave della provincia di Lucca ogni anno vengono estratti circa un milione di metri cubi

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Fra le aree degradate e dunque da ricostituire ci sono anche le ex cave per le quali si prevedono interventi di ricostituzione e recupero ambientale, volti alla difesa del suolo, alla regimazione delle acque, alla preservazione e al miglioramento della qualità dell’ambiente e del paesaggio. Concretamente si parla di interventi di contenimento dei processi erosivi, eventuale rimodellamento del versante, ripristino di un ecosistema “paranaturale” con la rinaturalizzazione tramite tecniche di ingegneria naturalistica, ripristino della vegetazione autoctona, rimboschimenti, mediante il corretto inserimento delle opere sotto il profilo estetico-paesaggistico nonché naturalistico.

Ma quante sono e quante erano le cave in provincia di Lucca. O – per meglio dire – nel bacino del Serchio? Si tratta di numeri vertiginosamente alti, anche se moltissime cave sono ormai inattive.

Cave che ovviamente sono ancora attive, almeno alcune, e da cui si estraggono ogni anno – guardando al territorio della provincia di Lucca circa 1,3 milioni di metri cubi: ben 26 milioni di metri cubi nel ventennio 2019-2038. Per ciascun comprensorio il Piano Regionale Cave (PRC)  definisce gli obiettivi di produzione sostenibile (OPS) che rappresentano i quantitativi massimi di materiale estraibile destinati alla commercializzazione, necessari a soddisfare il fabbisogno di un arco temporale di 20 anni con riferimento alla programmazione del periodo 2019-2038.

Per la definizione degli OPS del PRC vigente è stato considerato l’andamento delle produzioni risultanti dalla banca dati dal 2007 al 2016; in funzione di tale andamento, basandosi principalmente sulle quantità di materiale estratto negli ultimi anni, tramite un modello econometrico predisposto da IRPET, che ha tenuto conto di tre particolari variabili economiche costituite dal valore aggiunto dell’industria, dal valore aggiunto delle costruzioni e dalle esportazioni estere di beni, è stata effettuata una proiezione di medio-lungo periodo che copre un arco temporale di venti anni. Su tale proiezione sono stati valutati anche i quantitativi di materiale riciclato così come derivanti dagli studi specifici dell’Agenzia ARRR, ipotizzando una riduzione pari al 10% della produzione di quei materiali di cava che risultano essere potenzialmente sostituibili con materiale riciclato.

Lo sfruttamento delle risorse lapidee nel bacino del fiume Serchio, per utilizzi nel campo delle costruzioni e in quello ornamentale, ha origini lontane come testimoniato dal patrimonio edilizio e monumentale storico esistente. Solo con la fine dell’800, inizio del 900, l’attività estrattiva perse quei caratteri di estrema frammentazione sul territorio e di temporaneità, essenzialmente legati ad una produzione basata sulla pura commissione e su un utilizzo strettamente locale, e acquistò quelli di continuità e di razionalità gestionale e produttiva legati ad un mercato vero e proprio. Della maggior parte di questa antica, capillare e minuta attività estrattiva non rimane oggi praticamente nessuna evidenza morfologica e la sua esistenza rimane indirettamente testimoniata solo dal patrimonio edilizio e monumentale trasmessoci e dalla toponomastica rimasta o rinvenibile. La distribuzione e la concentrazione delle cave nel bacino del Serchio, per lo più legate ai vari caratteri litologici peculiari presenti, consentono in grande di individuare quattro 4 aree geografico-morfologiche ad alta concentrazione di attività estrattive.

Area della Garfagnana. In quest’area e segnatamente in quella Apuana si è sviluppato lo sfruttamento razionale del marmo (calcari saccaroidi giurassici bianchi, grigi e venati) a partire dagli inizi del secolo scorso, anche se notizie storiche consentono di spostare al 1300 l’inizio della produzione di marmo in Garfagnana e Versilia, produzione che si affiancò a quella del vicino comprensorio marmifero carrarese, di età ben più antica (romana). I bacini marmiferi principali sono quelli di Vagli (Arnetola), di Minucciano (Acquabianca e Orto di Donna) e di Arni-Monte Altissimo. Per problemi di vario ordine, geominerari, economico-commerciali ed ambientali, delle numerose cave censite solo una modesta parte risulta oggi attiva.

Zona Nordoccidentale dei Monti Pisani – Monti d’Oltre Serchio – Monti di Chiatri. In questo settore montuoso terminale della Valle del Serchio si è sviluppata nel tempo una diffusa attività estrattiva sfruttante sui Monti Pisani le formazioni metacarbonatiche e negli altri settori quelle carbonatiche e silicee (“diaspri”), pur non mancando cave di prestito anche in quelle arenacee (arenaria “macigno”). I materiali cavati sono stati nel tempo impiegati sia ad uso industriale (essenzialmente calci nelle numerose fornaci che ancora oggi rimangono), sia come pietra da costruzione, sia infine come inerti (in blocchi, tal quali e frantumati). In queste zone le cave attive, per problemi prevalentemente ambientali, sono ridotte a poche unità ed utilizzate prevalentemente come fonte di inerti frantumati e di materiali ad uso industriale per la fabbricazione di calci.

Piana Versiliese. La preminente attività estrattiva che, ha interessato la piana Versiliese è stata quella della sabbia silicea, largamente utilizzata nell’industria del marmo, in quella siderurgica e in quella vetraria. Lo sfruttamento sistematico e razionale del giacimento può essere ricondotto alla fine dell’800, a seguito dell’introduzione nella coltivazione del marmo del filo elicoidale per i “tagli al monte”, il cui impiego richiedeva ingenti quantitativi di sabbia. Dati storici inerenti i consumi di sabbia nell’industria marmifera indicano, per il triennio 1926-1928, una produzione di circa 150.000 tonnellate l’anno, cui vanno aggiunte le 50.000 tonnellate l’anno assorbite nello stesso periodo dall’industria vetraria. Una marginale attività estrattiva ha inoltre interessato, a partire dal 1896 e fino all’immediato dopoguerra (Seconda Guerra Mondiale) le torbe affioranti nell’intorno del Lago di Massaciuccoli che venivano utilizzate come combustibile di basso potere calorico. Le produzioni medie negli anni venti del secolo scorso si aggiravano intorno a 2.000 / 3.000 tonnellate l’anno, con punte conosciute però anche di oltre 60.000 tonnellata l’anno.

Alveo del Fiume Serchio. L’alveo del Fiume Serchio ricco di granulati naturali (sabbia, ghiaia e ciottoli) è stato certamente da tempo immemorabile oggetto di sfruttamento. Il massimo sfruttamento si è avuto nel periodo 1968-1975, periodo nel quale il solo Genio Civile di Lucca ha rilasciato mediamente 160 concessioni di escavazione/anno, con punta massima di oltre 210 nel 1975. Le estrazioni di inerti sono state condotte nel tempo sia attraverso impianti mobili che impianti fissi, questi ultimi distribuiti prevalentemente nel territorio lucchese e subordinatamente in quello pisano. Dal 1975 in poi le concessioni rilasciate sono notevolmente diminuite e rilasciate per soli fini idraulici di ricalibratura dell’alveo nel territorio lucchese. I volumi medi estratti negli ultimi anni sono stimabili in 55.000 metri cubi l’anno per il periodo 1980-1985 ed in soli 15.000 metri cubi l’anno negli anni successivi.

Come spiegava 30 anni fa il professore Raffaello Nardi, all’epoca Segretario generale dell’Autorità di Bacino del Serchio: «Tra i contenuti programmatici del piano di bacino particolare interesse riveste la tematica relativa all’attività estrattiva, sia per quanto riguarda la difesa del suolo sia, più in generale, per quanto riguarda il corretto uso delle risorse ed il contenimento degli impatti ambientali. Per questo motivo l’Autorità di Bacino ha svolto una ricerca sullo stato del settore estrattivo nel bacino del Serchio, in base ai quali, attraverso il Comitato Tecnico e la Segreteria Tecnica, è stato possibile poi il confronto con i piani estrattivi esistenti.  Nel bacino del Serchio la costituzione geologica e la litologia determinano la presenza di materiali pregiati, di vario impiego (marmi, rocce carbonatiche per inerti, sabbie silicee, etc.), per cui l’area assume una marcata peculiarità rispetto al territorio regionale. Tale peculiarità rappresenta di per sé una grande risorsa economica che necessita però di una attenta pianificazione. A fine anni ottanta la produzione pro capite di inerti, rapportata agli abitanti del bacino, risultava doppia rispetto a quella nazionale: ciò dimostra che i materiali dell’attività estrattiva sono utilizzati per circa la metà fuori dell’area del bacino, al momento senza alcuna regolamentazione. In particolare, l’utilizzazione risultava essere: locale (interessando le Province di Lucca e Pisa) per il 56,29 per cento, regionale (ad eccezione delle Province di Lucca e Pisa) per il 36,74 per cento, extraregionale per il 5,63 per cento, e extranazionale per l’1,34 per cento».

All’epoca la situazione rilevata (anche se in buona parte frutto del passato) aveva messo in risalto che l’attività estrattiva aveva causato numerose e gravi ferite sul territorio. A tale proposito è sufficiente ricordare da un lato l’elevato numero delle cave censite (534, dislocate in 25 dei 36 Comuni ricadenti nel bacino del Serchio); d’altro lato che i sistemi di escavazione in alcuni casi non tenevano in alcun conto né le esigenze legate alla stabilità dei versanti, né quelle legate alla salvaguardia del patrimonio naturale. Valga per tutti un esempio riguardante sulle Alpi Apuane la cava di marmo che in tempi recenti è andata ad interessare addirittura le “marmitte dei giganti”, quando materiale analogo e dello stesso pregio è presente in quantità enormi in aree limitrofe.

Eppure il 76 per cento delle cave censite ricadeva in territorio già soggetto al vincolo paesaggistico e a quello idrogeologico, mentre solo il 4,9 per cento delle stesse ricadeva in aree prive di qualsiasi vincolo, con oltre il 65 per cento delle cave attive ubicato nel Parco Regionale delle Apuane.

Il recupero ambientale delle cave richiede veri e propri progetti che, coinvolgendo figure professionali qualificate (paesaggisti, architetti, agronomi e forestali, oltre che ingegneri e geologi), tenda a un “restauro” morfologico del territorio e dei versanti in funzione delle diverse litologie dei materiali. Ciò vorrebbe significare di non applicare sempre gradoni e vegetazione, che spesso danno risultati innaturali per quanto riguarda il paesaggio e non sempre del tutto adeguati ai fini della stabilità geomorfologica, per preferire, in alcuni casi, il semplice “inganno” morfologico del versante, opportunamente rimodellato, lasciando ai processi naturali di ossidazione e di alterazione, che su certe litologie sono più rapidi di quanto non si ritenga, il ripristino paesaggistico.

La quantità di materiale che risulterebbe da un mirato recupero ambientale, opportunamente controllato, sarebbe sufficiente per una programmazione nel tempo che tenesse conto dei mercati e delle necessità anche fuori bacino. D’altra parte c’è l’opportunità di scavare i materiali, intervenendo con progetti mirati su alcune grosse frane litoidi presenti nel bacino del Serchio che determinano situazioni a rischio e che, per le loro dimensioni e caratteristiche, non sono altrimenti aggredibili. Varie le valutazioni anche in un contesto più ampio rispetto al bacino del Serchio perché interessano anche aree della provincia di Massa e riguardano problematiche più complesse e specifiche, sono quelle relative ai marmi, oggetto di specifici progetti della Regione Toscana e che ricadono nel Parco delle Apuane.

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