Come si affronta la povertà?

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La povertà non è una colpa. Non c’è vergogna nell’essere in difficoltà. Ma non può diventare neppure un titolo di diritto.

Siamo partiti da considerazioni giuste: la povertà non è qualcosa di cui ci si debba vergognare. E davvero non possiamo desiderare di tornare alla distinzione dell’Inghilterra di fine ‘800 tra i deserving e gli undeserving poor,cioè tra i poveri meritevoli di aiuto e i non meritevoli. Non possiamo perdere di vista la necessità di essere solidali li uni con gli altri. Se vogliamo essere una nazione non possiamo non aiutarci gli uni gli altri.

Soprattutto non possiamo rinnegare le radici della nostra cultura: quell’insieme di valori cristiani che sono alla base della nostra aspirazione alla pace e alla fratellanza fra tutti i popoli, non solo tra coloro hanno la nostra stessa fede; che ci dicono che il benessere non è l’unico metro di giudizio della riuscita di un progetto sociale; che ci spingono aiutare il prossimo e sostenerlo perché le cose possano cambiare.

Ma la stessa tradizione ci dice anche che siamo anche una comunità di doveri. Che se una parte non funziona è tutto il corpo che non funziona. E che «se un uno non vuole lavorare neppure mangi».

Negli anni abbiamo perso il senso del dovere reciproco. Abbiamo perso il senso che il funzionamento delle comunità è legato al senso di responsabilità che ciascuno ha nei confronti degli altri.

Abbiamo esasperato il principio di diritto e abrogato quello di dovere. Amplificato l’idea del godimento e denigrato quello della fatica. Tratteggiato i primi concetti come positivi e i secondi come negativi quando, in natura, non esistono i primi senza i secondi e non si apprezzano i piaceri senza aver adempiuto ai doveri che da questi derivano.

Così, un po’ alla volta, abbiamo cominciato a pensare che ciò che conta sia raggiungere il godimento, il potere e i soldi che possono abilitare tali vantaggi.

Abbiamo quindi confuso il sintomo, ciò che si vede, con la sostanza. Sia per la ricerca di ciò che riteniamo buono sia per la ricerca di ciò che non va ci fermiamo a quello che appare senza indagarne le cause.

E in questa ricerca asfissiante di una spiegazione veloce abbiamo trattato i problemi con la superficialità degli osservatori distratti (ossimoro che ben descrive il nostro tempo). Abbiamo cominciato a mettere al centro del «pensiero sociale» il povero, il debole, la minoranza. Proprio il soggetto e non la condizione di povertà, le situazioni che rendono deboli o i rischi di discriminazione: il soggetto al posto del problema.

Potrebbe sembrare persino giusto: porre l’individuo al centro sembra «umano» e «morale». Invece no. Porre al centro il «fatto» vuol dire che lo si vuole combattere e con esso le sue cause; porre al centro la persona implica che non si cercano delle cause da distruggere ma solo un soggetto su cui riversare il nostro bisogno «di sentirci buoni»; una opportunità che possiamo usare per compensare ciò che riteniamo di aver forse sbagliato. E quindi permettere che tali situazioni si ripetano, si cronicizzino, diventino un habitus. Un «social washing» che non punta a far emergere il povero dalle condizioni in cui si trova ma a farvelo stare, un po’ meglio magari, ma senza volerlo riabilitare.

Porre il povero al centro è un porlo in trappola tingendo d’oro le sue sbarre. E, contemporaneamente, facendo ammalare la nostra comunità.

Facciamo degli esempi: i decenni di sussidi per il sud, sussidi non incentivi al lavoro, hanno generato la cultura del «posto fisso» e del «dovere del nord di soccorrere il sud». Dovere sacrosanto, se inteso come necessaria solidarietà per superare un momento difficile, ma che non ha ragione di esistere se è inteso come permanente dazio morale del ricco per il povero.

Il reddito di cittadinanza è un insulto verbale: non esiste un diritto ad avere un sostegno indipendentemente dal nostro impegno a favore della comunità, è diseducativo e sbagliato. Non il fatto di prevedere un sostegno per chi ha un momento di difficoltà: quello è necessario e buono. Ma trasformare questo in un diritto a «vivere dignitosamente» anche senza lavorare quello non è accettabile. Perché non c’è dignità nell’essere a carico degli altri se questo non è per un momento di sbandamento ma per una scelta di vita.

Un altro esempio eclatante di come non vediamo più le cause della povertà è la famosa-famigerata definizione di «diritto acquisito»: un altro ossimoro che vuol dire privilegio per qualcuno che grava sulle spalle di altri. Un qualcosa che non è possibile estendere a tutti ma che qualcuno ha e rivendica per sé pur sapendo che il costo graverà su chi quel «diritto» non lo avrà e che per garantirlo, resterà in condizioni di inferiorità. È il caso delle pensioni: molti di quelli che sono in pensione percepiscono cifre anche doppie rispetto a chi ha fatto lo stesso lavoro e ha versato gli stessi contributi solo qualche anno dopo. E l’enorme carico di spesa pubblica pensionistica si trasforma nei salari bassi dei giovani di oggi (il famoso cuneo fiscale). Rendendo impossibile il miglioramento delle loro condizioni.

Potremmo dire lo stesso del famigerato 110% percento: quel +10% è un oltraggio. È un dire che possiamo approfittarci della comunità impunemente. Che gli altri non contano nulla. Se poi, come è davvero accaduto, quel sussidio è stato dato prevalentemente a persone ricche (la spesa complessiva in uni e bifamiliari è stata maggiore che su condomini) senza che nessuno ne contrastasse l’impianto autorizzativo, possiamo ben vedere quanto in basso è scesa la nostra sensibilità per il benessere della nostra nazione.

Ecco allora che è imperativo ripensare il nostro approccio alla socialità. Dobbiamo porre il tema dei doveri accanto a ogni dichiarazione di un diritto. E della temporaneità per ogni situazione in cui questa possa essere richiesta. E dobbiamo riaffermare che si devono allargare i diritti solo se possiamo mantenere uguaglianza tra cittadini.

Ma soprattutto dobbiamo riaffermare che ciò che tiene tutto insieme è il dovere di fare il nostro lavoro al meglio per il funzionamento di una società che ci fa vivere tutti.

Foto di Dio Hasbi Saniskoro

Andrea Bicocchi
Andrea Bicocchi
Imprenditore, editore de "Lo Schermo", volontario. Mi piace approfondire le cose e ho un'insana passione per tutto quello che è tecnologia e innovazione. Sono anche convinto che la comunità in cui viviamo abbia bisogno dell'impegno e del lavoro di tutti e di ciascuno. Il mio impegno nel lavoro, nel sociale e ne Lo Schermo, riflettono questa mia visione del mondo.

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2 Commenti

  1. Basta applicare gli articoli 2 , 4 e il comma 2 dell’articolo 3 della nostra Costituzione repubblicana:
    Art. 2. La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
    4. La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.
    3. c.2- E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

  2. Questo stimolante e sfaccettato contributo ci fa ricordare almeno due cose: col 31 Dicembre prossimo venturo terminerà il reddito di cittadinanza e scatterà la nuova normativa; e poi, soprattutto, che la questione della povertà oggi non è soltanto un problema economico e di cifre scritte nel bilancio dello stato, degli enti territoriali ed intermedi locali.
    A decorrere dal 1° gennaio 2024 sono abrogate le norme della legge che avevano introdotto il reddito di cittadinanza (RdC). Lo dispone la legge di bilancio del 2022 istitutiva in sostituzione di un Fondo per il sostegno alla povertà e all’inclusione attiva, preannunciando un’organica riforma delle misure di sostegno.
    Il contributo porta a concludere che nessuna riforma può avere successo se non basata su una visione di cosa sia la povertà oggi, credo intendendo in paesi sviluppati e tutto sommato ricchi come il nostro. Sulla facciata del nostro Duomo v’era la statua di San Martino (ora all’interno) simboleggiante la povertà così come intesa un tempo: il Santo che da cavallo taglia il suo mantello con la spada per donarlo ad un povero. Al centro, dunque, “il soggetto e non la condizione di povertà”. Di sicuro non la povertà come si manifesta nel mondo d’oggi che, per molte cause che sarebbe molto interessante approfondire, è stratificata, subdolamente strutturale, non sempre prevedibile nelle sue manifestazioni connesse all’evolvere della società, della sua economia e, soprattutto della tecnologia. E poi tende a coinvolgere vere e proprie categorie e quindi ampi numeri di persone. Spesso anche d’improvviso, come in caso di eventi climatici oppure epidemici, questi ultimi dovuti alla inevitabile interconnessione globale delle nostre società. Secondo una recente rilevazione dell’ISTAT, la quota di persone in povertà “assoluta” in Italia è salita da 9,1 per cento nel 2021 a 9,7 per cento nel 2022, quella delle famiglie da 7,7 per cento a 8,3 per cento. Si tratta di 5,6 milioni di persone che vivono in 2,2 milioni di famiglie.
    Per nostra fortuna alle basi della cultura del paese abbiamo non soltanto dei valori cristiani di solidarietà umana, ma sono anche nettamente rintracciabili nella nostra Costituzione quelli della solidarietà sociale. Così all’art 3 si legge che “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando DI FATTO la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’EFFETTIVA partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (caratteri cubitali non nell’originale). La povertà come condizione rientra certamente tra le cause ostative in questi ambiti. Oltre ai richiami alle condizioni concrete e non astratte da rimuovere, la Costituzione individua chiaramente l’esistenza dei nessi tra disuguaglianze sociali – tra le quali va annoverata la povertà – e la stessa organizzazione democratica di un Paese, a riprova della complessità della materia che supera la stretta sfera economica e finanziaria. E subito dopo all’articolo 4 stabilisce, come sta a cuore ad Andrea Bicocchi, che “Ogni cittadino ha il DOVERE (c.s.) di svolgere secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.
    La nuova legge è in linea col principio universalistico che trova espressione nella Costituzione che non distingue per categorie di persone, per condizioni di lavoro e di reddito, composizione della famiglia età….? A molti non pare (maggioranza? minoranza?). La materia è comunque di attualità e di certo merita approfondimenti anche sullo stimolo del contributo alla riflessione commentato.

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