Oggi il Caffè Di Simo giace abbandonato a sé stesso, dietro serrande arrugginite che dall’esterno cercano di impedire ai passanti di vedere il glorioso passato che fu. Vittima di una vicenda giudiziaria lunga e complessa, il Caffè rappresenta un luogo simbolo della nostra città, indubbiamente pregiudicata dalla chiusura di uno dei suoi locali più importanti. Dentro a quelle stanze – così affascinanti e romantiche – si sono svolte alcune delle vicende più interessanti del panorama culturale, artistico e politico della nostra Lucca e non solo.
Non tutti sanno, però, che prima di chiamarsi in quel modo il nome del Di Simo era un altro. Attivo sin dalla metà dell’ottocento, inizialmente il locale si chiamava Caffè Caselli, ma a Lucca era conosciuto come il Caffè di Carluccio: una denominazione che traeva origine dal diminutivo del suo proprietario, Carlo Caselli appunto, nome che avrebbe accompagnato il locale anche dopo la morte di quest’ultimo.
Il Caffè divenne ben presto il centro della vita culturale e politica della città, ma il vecchio Carlo non ebbe alcun ruolo in tale importante trasformazione. Il cambio di passo fu infatti opera del figlio, il grande Alfredo Caselli – di cui quest’anno ricorre il centenario della morte – un originale mecenate che amava circondarsi di spiriti illuminati, artisti irrequieti e anime perse. Un uomo che, soprattutto, adorava la musica, la letteratura e ogni forma d’arte.
Il padre Carlo cercò – per nostra fortuna inutilmente – di dissuaderlo da quei suoi grilli artistici che facevano cercare al ragazzo la compagnia di artisti come Puccini, Catalani e Pea. Nonostante le pressioni paterne, Alfredo Caselli – che poco studiò e che nel Caffè faceva il commesso – trasformò il locale nel cuore pulsante, dissidente e anticonformista della città.
Era infatti la fine dell’800, e a Lucca si sentiva più che mai l’ingombrante presenza del marchese Lorenzo Bottini. La città era un denso impasto di intolleranza, di conformismo e di bigotteria, sentimenti che impregnavano la vita pubblica e privata fino al midollo. Ma persino in quella Lucca – così come stava accadendo altrove nel nostro Paese – si era formata una compagnia che si caratterizzava per la ferma volontà di recepire tutte le novità che stavano svecchiando il panorama culturale, artistico e politico dell’Italia.
Come riportato dal Prof. Umberto Sereni in un suo vecchio contributo[1], quella “era una compagnia composta perlopiù da giovani: studenti universitari, aspiranti poeti ed artisti, professori e avvocati alle prime armi che si dedicavano alle lettere e all’impegno civile, ma la rinforzavano anche uomini più maturi: docenti dell’Istituto d’Arte, brillanti giornalisti con pronunciata vena polemica, pittori e scultori che già si erano procurati una certa fama, spiriti inquieti”. È proprio in tale contesto che nacque il quotidiano “La Sementa”, che iniziò le pubblicazioni il 25 dicembre 1900 come organo di stampa ufficiale dei socialisti lucchesi.
Ecco, questa compagnia aveva il suo ritrovo proprio all’interno del Caffè Caselli, elegante locale che inizialmente si componeva di sole tre stanzette comunicanti l’una con l’altra, appartate e intime come salotti. Per i nobili spiriti, che l’avevano eletto a luogo aureo dei loro giorni, “varcarne l’ingresso equivaleva ad entrare in uno spazio sottratto alla plumbea cappa stesa sulla città”.
Il Caffè Caselli assolveva per loro a più funzioni: era il rifugio che li ripagava di tante amarezze quotidiane, era la fortezza che li difendeva dall’invadenza “bottiniana”, era l’isola sottratta alle bigotte leggi che dominavano la città, era l’anello che li teneva legati a quel mondo di ideale bellezza al quale sentivano di appartenere.
Tutto questo accadeva su impulso e per volontà dell’immenso Alfredo Caselli – droghiere e caffettiere per eredità familiare, ma artista per ispirazione e per effettiva pratica – un uomo che la città sta ingiustamente dimenticando.
[1] U.SERENI, “Un ritrovo di nobili spiriti, il Caffè Caselli in Fillungo a Lucca”, Architettura&Arte – La bottega del caffè, Angelo Pontecorboli editore, Firenze, 1998.