Autonomia differenziata: parliamone un po’.

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Negli ultimi tempi si è parlato molto di autonomia differenziata. E molto se ne parlerà ancora. Anche per via dei famosi-famigerati LEP (Livelli Essenziali di Prestazione).

“L’autonomia è banalmente l’attuazione della costituzione e migliorerà la vita delle persone soprattutto a sud” dicono gli uni.

“L’autonomia spaccherà l’Italia in due e aumenterà drammaticamente le disuguaglianze soprattutto tra sud e nord” sentenziano gli altri.

Avete notato anche voi che su certi temi la politica smette di discutere di contenuti e comincia a parlare per slogan? E questo avviene soprattutto quando la materia è un po’ complessa: non ci si disturba a spiegare davvero i contenuti del dispositivo di legge proposto e si passa direttamente all’iperbole verbale, all’esagerazione ansiogena, alla leva delle paure. Si cerca, cioè, di sollevare l’opinione pubblica non già su una consistente analisi dei contenuti e su specifici punti deboli delle proposte quanto piuttosto sul rifiuto totale e sulla demonizzazione dell’avversario insinuando torbide motivazioni inconfessabili o egoistici obiettivi. Come dall’altra parte si sostiene la taumaturgica capacità di sanare ogni problema solo con l’introduzione della legge senza neppure doversi impegnare nell’attuazione della stessa.

È quello che è successo su molte materie, soprattutto su riforme del sistema: dalla riduzione dei parlamentari al reddito di cittadinanza, dalla riforma del premierato a quella della giustizia. Merita appena osservare, incidentalmente, che le prime due sono state riforme che sono state approvate dal parlamento e che hanno platealmente fallito il loro obiettivo, le seconde devono ancora essere approvate e dovremo capire poi se serviranno a qualche cosa.

Ma tornando al tema dell’autonomia differenziata trovo singolare che la discussione sia del tutto priva di dati, di considerazioni di merito ed esclusivamente rimandata a slogan. Necessita quindi fare un minimo sforzo per valutare la situazione in modo non apertamente fazioso.

La domanda di fondo, se trattiamo la questione in termini generali, come del resto fanno tutti gli attori del discorso pubblico, è se è vantaggioso o svantaggioso il decentramento amministrativo. Se, cioè, le regioni sono uno strumento utile o meno. Perché, se la risposta è affermativa, le regioni sono quindi utili alla efficace gestione della macchina pubblica, allora consegue che anche il decentramento ha una sua ragione. Se ne potrà discutere i limiti e le regole di uniformità minima ma non la sua utilità. E questa utilità si paleserà nella migliore gestione delle risorse o, il che è lo stesso, nella migliore qualità delle prestazioni a risorse invariate. Alternativamente la posizione opposta dovrà essere caratterizzata dalla convinzione che lo stato è il livello di organizzazione migliore per i servizi al cittadino, almeno per quelli più sensibili.

La posizione centralista non ha un gran seguito generalmente in Italia. Ma volendo proseguire nella valutazione dobbiamo chiederci quale delle strutture attualmente presenti nell’organizzazione pubblica possono essere validi esempi per valutarne vantaggi e svantaggi.

Se guardiamo alle attuali materie che le regioni gestiscono, anche senza l’autonomia differenziata, la sanità è oggettivamente il campo di maggior sperimentazione. Non solo perché è la fonte principale di spesa di una regione, ma anche perché è la materia in cui la differenziazione tra le regioni è stata più marcata.

Su questo punto è difficile non constatare marcate variazioni di qualità ed efficienza di funzionamento tra regioni diverse. Il che conferma quanto sostengono gli oppositori della autonomia paventando un’Italia a più velocità. L’esperienza mostra che la possibilità di diversità di servizio è concreta.

D’altronde dovremmo anche chiederci se riteniamo che il servizio sarebbe davvero migliore se a gestirlo fosse il ministero della sanità a Roma senza la mediazione delle regioni. Ritengo, e qui davvero devo esprimere un parere personale non suffragabile da dati concreti, che sia difficile crederlo. Difficile, cioè, pensare che il Ministero della Sanità avrebbe potuto attuare politiche di gestione della sanità più efficaci sul territorio nazionale di quello fatto dalle regioni. Difficile anche pensare che questo avrebbe potuto essere vero neppure nelle regioni del sud Italia che pure hanno sistemi caratterizzati da notevole inefficienza.

In effetti la posizione centralista richiederebbe per coerenza la previsione di abolizione delle regioni come ente pubblico. Questa richiesta, naturalmente, non viene fatta da chi chiede di fermare l’autonomia differenziata, politicamente posizionati a sinistra, con la pregevole eccezione del sindaco di Milano Beppe Sala che in una intervista al Corriere di qualche giorno fa ha dichiarato che, a più di cinquanta anni dalla loro istituzione si potrebbe trarre un bilancio della storia degli enti regione. E in proposito dichiara: “È una storia di successo? Non ne sono per niente certo.” Ma va sottolineato che lo fa da sindaco di una delle aree metropolitane, la più importante di Italia, che contendono alle regioni un livello di autonomia che si basa anche sul livello di popolazione e che non è certo replicabile sulla genericità dei comuni e neppure sulle provincie. E, per il resto del centrosinistra, il fatto di essere alla guida di regioni importanti li tiene lontani da ogni tentazione di abolizionismo.

Quindi alla fine la domanda che dobbiamo farci, per giudicare il caso delle regioni come test di autonomia, è la seguente: riteniamo che i compiti della sanità sarebbero, almeno nella media nazionale, svolti meglio dal ministero o che sia meglio lasciarle alle regioni?

Se la risposta che diamo a questa domanda è che preferiamo il ministero, allora abbiamo una visione chiara del perché opporsi a questa riforma.

Se invece riteniamo, come chi scrive, che una gestione centralistica e ministeriale non avrebbe in nulla migliorato la gestione della sanità e che invece questa sarebbe stata peggiore anche nelle aree dove neppure oggi funziona e drammaticamente degradata nelle aree in cui funziona, allora dovremmo guardare alla riforma con un occhio meno generico e cominciare a chiederci cosa sia davvero lecito aspettarci e come apportare miglioramenti ad un progetto nuovo e da sviluppare. Un progetto che può certamente essere migliorato ma che ha delle possibilità da studiare.

Certo l’Italia sarà in parte disomogenea. Come del resto è sempre stata anche quando le regioni non esistevano neppure e di autonomia non si parlava proprio. Ma le differenze possono essere viste come il sintomo di una ingiustizia o come lo stimolo di una crescita. Chi pensa che lo Stato sia fatto da “altri” che hanno il dovere di salvarli e portarli in collo la pensa nel primo modo. Chi pensa che lo Stato è fatto da ciascuno di noi che, rimboccandosi le maniche e facendo al meglio il suo compito, contribuisce alla collettività, apprezza gli stimoli alla crescita e la libertà di innovare. E magari di copiare chi ha idee creative per raggiungere condizioni migliori.

Foto di Johannes Strötker

Andrea Bicocchi
Andrea Bicocchi
Imprenditore, editore de "Lo Schermo", volontario. Mi piace approfondire le cose e ho un'insana passione per tutto quello che è tecnologia e innovazione. Sono anche convinto che la comunità in cui viviamo abbia bisogno dell'impegno e del lavoro di tutti e di ciascuno. Il mio impegno nel lavoro, nel sociale e ne Lo Schermo, riflettono questa mia visione del mondo.

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