Auto elettrica e transizione ecologica: il suicidio dell’industria europea

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L’auto elettrica sta diventando l’emblema del contrasto tra transizione green e mercato. Ma anche, e soprattutto, dello schianto che la burocrazia ha prodotto in uno dei settori strategici del vecchio continente.

Lo diventa perché quello dell’auto è stato finora il settore di eccellenza per l’Europa. In questo settore i marchi del nostro continente hanno espresso la migliore tecnologia sul mercato, i prodotti più interessanti e le quote di mercato più importanti. Quando si parlava di auto ci si riferiva con deferenza all’insieme dei marchi europei. E questi, aggregati, erano largamente la più grande produzione di auto al mondo.

E, soprattutto, quella tecnologicamente migliore.

I marchi europei erano potuti andare a comprare concorrenti in tutto il mondo. FIAT si era comprata l’americanissima General Motors; Renault aveva scalato la nipponica Nissan; molte alleanze erano decisamente sbilanciate a favore dei marchi europei.

Il processo di consolidamento indicava un mercato estremamente maturo, con enormi capitali necessari allo sviluppo di nuovi modelli, una marginalità bassa e forti barriere all’ingresso di nuovi attori: barriere tecnologiche (saper fare) e barriere burocratiche (pioggia di autorizzazioni e una normativa gordiana). E in mercati consolidati è difficile entrare da zero: il processo classico di creazione di valore consiste nello scalare di dimensioni fino a restare in pochi, grandissimi e pesantissimi. E, in cima a questa catena alimentare, c’erano soprattutto le case europee.

Il tutto al passato. Tutto questo non è più vero oggi.

Un dominio importante che dava lustro alla nostra industria ma che anche, e soprattutto, occupa moltissime persone tra occupazione diretta e indiretta, si è perso.

E la domanda è: come è accaduto?

Le debacle di queste dimensioni sono sempre anche responsabilità degli attori principali: nel nostro caso le case automobilistiche. L’industria europea ha preso sottogamba la rivoluzione delle auto elettriche: convinta della propria superiorità tecnologica e persuasa che i tempi di accettazione del nuovo prodotto non fossero maturi, ha procrastinato gli investimenti e atteso l’evolversi degli eventi. E questo non sarebbe neppure stato un ragionamento sbagliato: i costi delle batterie mantengono tutt’oggi l’auto elettrica in uno stato di non competitività economica rispetto ad equivalenti modelli a combustibili tradizionali e l’acquisto, se non sostenuto da politiche fiscali, sarebbe stato solo un fenomeno di nicchia. Inoltre, il problema delle infrastrutture di ricarica appariva quasi insormontabile alle case che volevano investire. Persino un uomo lungimirante come Marchionne era pubblicamente molto scettico sull’auto elettrica.

Probabilmente la storia dell’auto elettrica non sarebbe stata quella che conosciamo se non fossero scesi in campo tre attori continentali: tre pesi massimi che, con ruoli diversi, hanno cambiato il corso della partita. Parliamo di Europa, Cina e anche degli Stati Uniti (che ha giocato con due ruoli diversi: uno da molti stati federali, l’altro da alcune delle sue più innovative aziende).

L’Europa ha interpretato il ruolo che le è più caro, quello in cui si riconosce maggiormente: il produttore di norme, il regolatore universale. Seguendo meccanicamente e acriticamente un trend molto gradito all’opinione pubblica, ha scritto una serie di leggi e norme antinquinamento sempre più severe e stringenti. Ha posto degli obiettivi di decarbonizzazione di altissimo livello e li ha posti non come obiettivi il cui raggiungimento doveva essere verificato con la compatibilità economica e di sistema ma come obiettivi assoluti e irrinunciabili. Ha quindi prodotto una lunga teoria di norme antiinquinamento per i motori automobilistici (EURO 1… EURO 6 e oltre) una serie altrettanto lunga di costi in carico alle aziende (leggasi certificati verdi). E, visto che era in vena di regolamentazione, ha prodotto anche una serie norme legate a sicurezza attiva, passiva e per i pedoni (EuroNCAP).

Questo ruolo, di regolatore ad alto impatto con obiettivi enormemente sfidanti, lo hanno giocato anche gli USA o, meglio, alcuni stati degli USA capitanati dalla California e dallo stato di New York (il che, guarda caso, delinea una frattura ideologico-politica su cui torneremo in un futuro articolo).

E questo è il primo strike.

Negli USA però sono scese in campo le aziende. In particolare Tesla ha scommesso fortissimo sul settore e ha bruciato decine di miliardi in sviluppo tecnico, rete di vendita e, soprattutto, rete proprietaria e planetaria di ricarica. Con un dinamismo che solo il capitalismo a stelle e strisce sa produrre, il «mercato» ha superato i problemi che i regolatori hanno seminato sulla strada e ha saputo creare un colosso automobilistico là dove si credeva che una nuova proposta fosse impossibile. E ha spiazzato un mercato che si creava maturo e non scalabile costituendo un nuovo soggetto che si è imposto nel settore automobilistico partendo dal nulla. E oltretutto diventando leader del settore delle auto elettriche di cui è il primo produttore e accreditato di potenzialità molto rilevanti.

Secondo strike.

Il terzo strike è arrivato dalla Cina, che ha un regime comunista ma che ha sempre considerato il mercato come uno strumento da utilizzare anche in chiave politica e internazionale: ha investito migliaia di miliardi nella filiera automotive, ripartiti tra sostegno alle aziende, sostegno alle infrastrutture e sostegni all’acquisto. Così facendo fatto nascere e ha drogato un enorme mercato interno e ha dato l’opportunità di crescere ad una nuova generazione di aziende del settore: aziende che prima non esistevano o avevano dimensioni marginali (tipo BYD, Dongfeng, Leapmotor, Lynk & Co) o machi che si occupavano di altro e che hanno deciso di buttarsi sul settore (es. Xiaomi che era un produttore di cellulari e si trova a produrre auto elettriche).

Se queste marche sono potute crescere è per un mix di situazioni: certo la disponibilità di capitali che lo stato cinese ha largamente versato nel settore. Altrettanto certamente è per effetto di disponibilità di competenze grazie all’accresciuta capacità culturale (soprattutto tecnica) della popolazione. E indubbiamente anche grazie alla possibilità di «copiare» di cui i cinesi hanno fatto un marchio, protetti anche da una legislazione permissiva e una ridotta capacità di difesa che le aziende straniere possono avere per le proprie idee sul territorio dello stato del dragone.

Ma una mano importante è stata fornita anche da una legislazione volutamente leggera e non coercitiva che consente di sviluppare senza troppi fardelli e con un dinamismo che è sconosciuto da noi. Certo, per credere e per vivere devi essere gradito allo stato (che significa nelle grazie di qualche funzionario di partito) ma le aziende possono crescere. E, con esse, cresce il benessere e l’economia.

E qui siamo al nostro punto: l’Europa si pone come regolatore globale che impone tasse, norme e costi sulle realtà produttive per via di un’impostazione iper-regolativa. E questo bagaglio normativa schiaccia la nostra capacità di industriale e produttiva rendendo la nostra economia anemica e in affanno permanete. Così perdiamo costantemente competitività nel mondo.

Beppe Grillo può essere soddisfatto dell’Europa: sta attuando quel programma di «decrescita felice» che per anni ha propagandato.

Image by Holger Schué from Pixabay

Andrea Bicocchi
Andrea Bicocchi
Imprenditore, editore de "Lo Schermo", volontario. Mi piace approfondire le cose e ho un'insana passione per tutto quello che è tecnologia e innovazione. Sono anche convinto che la comunità in cui viviamo abbia bisogno dell'impegno e del lavoro di tutti e di ciascuno. Il mio impegno nel lavoro, nel sociale e ne Lo Schermo, riflettono questa mia visione del mondo.

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