Mi sono trovato spesso a riflettere su che cosa sia l’arte. Ovviamente non ho trovato una risposta. Del resto, parafrasando Borges, la mèta è il cammino: l’importante è affrontare la questione, non risolverla. E, se ci fossi riuscito, sarebbe sorprendente, dato che innumeri generazioni di filosofi (e, più di recente, anche esperti di altre discipline, come le neuroscienze) hanno dibattuto sul tema senza poter addivenire a una conclusione convincente per tutti e universalmente accettata.
In effetti, quello di arte è un concetto relativo, e in alcune epoche e contesti geografici non compare nemmeno. Per noi Europei, che nel corso di tre millenni abbiamo sviluppato un’altissima forma di civiltà (a partire dalla triade Gerusalemme-Atene-Roma, che abbiamo inscritta in un invidiabile DNA culturale), il termine possiede una connotazione e denotazione piuttosto circoscritte, seppur non del tutto univoche; è implicato con un’idea di bellezza estetica, benché minata da oltre un secolo di sperimentazioni avanguardistiche e post-avanguardistiche, spesso particolarmente sensibili al brutto.
È comunque importante chiedersi perché l’essere umano, fin dai tempi primordiali, abbia avvertito, una volta soddisfatti i bisogni primari, la spinta a produrre ciò che noi intendiamo come arte. Credo che vi siano vari moventi: il desiderio di lasciare una traccia, l’esigenza di esprimersi, di comunicare, forse persino la vanità. Ma io penso che ci sia anche la ricerca di un altro e di un oltre, di un infinito cui si tende non appena ci interroghiamo sul senso del nostro essere-nel-mondo.
L’arte è anti-utilitaristica. Se rispondesse a una necessità funzionale o pratica, non sarebbe tale. Piuttosto, è quel quid insito nel più profondo della nostra psiche, o dell’anima, per i credenti. Insomma, nemmeno io sono riuscito a definirla. Mi sono limitato a scrivere “due o tre cose che so di lei” (mi si conceda la piccola citazione cinematografica godardiana per chiudere con bonaria sprezzatura queste semplici meditazioni, quasi scaturite tra me e me), o meglio, che mi sembra di aver capito, intuìto.
Paolo Bolpagni