Nella lingua italiana l’aggettivo “gratuito” può rivestirsi di accezioni positive, neutre o negative: «che si fa o si riceve o si ha senza pagamento, senza compenso […] senza riceverne corrispettivo»; «fatto o concesso liberamente, senza particolare merito o diritto da parte di chi riceve»; «che non ha motivo, privo di fondamento […] quindi anche immeritato […] o privo di un fine determinato» (le definizioni sono tratte dalla Piccola Treccani).
Al di là delle diverse interpretazioni e declinazioni del suo significato, che relazione può sussistere tra il concetto di “gratuità” e quello di “arte”? A tutta prima, verranno alla mente dei più ingenui le solite asserzioni sulla vocazione superiore dell’individuo creatore, concentrato nell’espressione della propria interiorità emotiva, perciò dimentico o disdegnoso delle più banali esigenze di sostentamento economico, che limiterebbero la sua libertà: senza dubbio, si tratta del retaggio di una visione tardo-romantica e bohémienne.
D’altro canto, se “le poesie non danno pane”, come dicevano gli antichi, lo stesso dovrebbe valere anche per dipinti, sculture, video, installazioni, fotografie etc. Come si spiegano, allora, le quotazioni milionarie delle opere di Jeff Koons e Damien Hirst? Parrebbe essersi ribaltato il mito del genio incompreso, bistrattato dalla critica, morto in miseria e riscoperto dalla posterità; insomma, il ben noto armamentario dell’artista maledetto, di così gran presa sulle folle, che ha fatto assurgere personaggi come Van Gogh e Caravaggio al rango di veri e propri must, indipendentemente dalla valutazione dell’eccelsa qualità estetica (la cui piena comprensione non è certo alla portata di chi ne affolla le retrospettive – peraltro in alcune mostre dove il loro nome è citato, di opere autentiche non c’è nemmeno traccia, o quasi).
Quindi, si sarebbe ribaltata completamente la situazione: primo, Koons e Hirst non sono geni (o forse sì: della finanza), al contrario di Van Gogh e Caravaggio; secondo, sono strapagati, si sono arricchiti enormemente, e in età ancora relativamente giovane. Ma ritraiamoci da tentazioni moralistiche.
Nonostante tutto, resta assai diffusa l’ipocrisia secondo cui l’arte non avrebbe nulla a che spartire col denaro, che sarebbe entrato soltanto di recente, con il gusto del lusso post-moderno, nei territori della creatività. In realtà, se ci applicassimo a una pur sommaria analisi storica, potremmo concludere che la presenza di un committente, di qualcuno che paghi il pittore per dipingere, lo scultore per scolpire, è una costante, o meglio una necessità. L’arte non è un bisogno primario: se ne può fare a meno. L’esigenza della componente estetica comincia ad affacciarsi quando siano stati soddisfatti impulsi ben più gagliardi: la fame, la sete, il sonno, il giaciglio, la compagnia. Ecco perché i periodi più fecondi di capolavori coincidono con quelli di prosperità economica, o tutt’al più di incipiente decadenza (raggiunto il culmine della ricchezza, le energie e gli stimoli all’attività si infiacchiscono, e il bello domina sull’utile: conseguenza e insieme concausa del declino).
L’arte, infatti, presuppone il denaro, ed è sinonimo di superfluo. L’atto che produce un oggetto privo di funzionalità pratica (a che servono un dipinto o una videoinstallazione?) è assurdo, in chiave evolutiva: la femmina, darwinianamente, dovrebbe scegliere (vi è qualche dubbio sul fatto che sia lei a tenere le fila?) il maschio più forte, non il più sensibile alla dimensione estetica. Ma – che diamine! – abbiamo un quid ulteriore rispetto alla scimmia: l’autoconsapevolezza, la capacità di vedere noi stessi dal di fuori, di riconoscerci in quanto individui, di pórci domande.
A dispetto delle apparenze, questo c’entra molto con l’arte, che sta agli antipodi rispetto al bisogno e all’istinto, e nasce proprio da ciò che di gratuito – ovverosia di non orientato a un obiettivo di utilità strumentale – alberga in noi. Contrariamente all’animale, l’uomo non si nutre, non si ingozza, bensì mangia, apparecchia la tavola, dispone le vivande nel piatto, talvolta con cura e ricercatezza: giacché non deve semplicemente soddisfare un’esigenza vitale, ma iscrive il proprio atto in un àmbito sociale e culturale. Ha una dignità e un decoro. Ebbene, l’arte si addice, è conforme all’uomo.
Non è gratis, visto che le occorrono mezzi, capitali: ha un suo mercato, per fortuna (e non mi si venga a dire che l’originalità e la genuinità debbono stare per forza al di fuori di esso, per non “contaminarsi” con fattori commerciali ed economici: fandonie, fumisterie ideologiche!).
Non rientra in ciò che è indispensabile all’esistenza biologica: quindi, si è già asserito, non è necessaria; ma nemmeno inutile, a differenza del lusso. Di conseguenza, non è “senza motivo”, “priva di fondamento”: non è gratuita. All’opposto: per dirla con Remo Bodei, grande e rimpianto filosofo italiano, è “pienezza di senso”. Allo stesso tempo, è gratuita, perché non finalizzata all’appagamento di un’istanza materiale. Ma è ciò che contribuisce a riempire le nostre vite.
Paolo Bolpagni