Se un aspirante meccanico in Italia volesse aprire la propria officina avrebbe bisogno di ottantasei permessi. Se invece decidesse di puntare su qualcosa di più semplice, come vendere pizza al taglio nella propria città, si renderebbe conto che le cose potrebbero non essere così semplici: il meccanico-pizzaiolo sarebbe sottoposto a controlli da parte di ventuno diversi enti governativi. Quando un commerciante si trova impelagato in una controversia commerciale in Italia, potrebbe rischiare di non uscirne prima di tre anni – il doppio rispetto alla Spagna.
Secondo una recente analisi della Banca Mondiale, questo potrebbe spiegare perché l’Italia si è classificata al quinto posto tra gli Stati Membri dell’UE per difficoltà di commercio. Questi dati aiutano inoltre a comprendere perché il vertice europeo di questo agosto sia durato ben cinque giorni, quando un (ahimè a noi noto) quartetto di Paesi si è opposto all’approvazione di un importante accordo per finanziare la ripresa dell’UE dalla pandemia del coronavirus. Secondo questo accordo, la Commissione Europea (CE) prenderebbe in prestito 750 miliardi di euro per poi dare o prestare ai vari Stati Membri a seconda dell’impatto che il covid-19 ha avuto sulle loro economie, ma anche a seconda di quanto tali economie abbiano bisogno di modernizzarsi. Questo accordo/strumento è tecnicamente indicato come New Generation EU (NGEU), e secondo l’Economist, possono esserci due modi molto diversi di vederla: pessimisticamente, l’NGEU potrebbe portare alla distribuzione senza limiti di risorse da parte dei Paesi del Nord verso i Paesi del Sud; ottimisticamente, questa potrebbe essere un’opportunità storica per finalmente portare i Paesi del Sud ad un livello molto simile a quelli del Nord, affinché in futuro questi tipi di provvedimenti non siano più necessari.
L’Italia – principale beneficiaria del NGEU – adesso ha una grande responsabilità. Non è ancora chiaro quanto ci toccherà, anche se secondo il Premier Giuseppe Conte si tratterà di 209 miliardi di euro: 81 miliardi di euro in sovvenzioni e 127 miliardi di euro in prestiti. Ciò che effettivamente l’Italia prenderà in prestito dipenderà da fattori come la valutazione della CE sulle proposte di spesa mosse dal nostro Paese e la disponibilità del nostro governo ad assumersi un debito pubblico ancora più oneroso: per far fronte al covid-19 l’attuale debito è aumentato fino al 155% del PIL.
Inoltre, l’Italia potrebbe alla fine ritrovarsi a dover ripagare buona parte di questo “buffet gratuito” essendo un netto contributore alle finanze dell’UE – anche se le regole non sono ancora state definite. Inoltre, per convincere Austria, Danimarca, Olanda e Svezia, o come sono stati recentemente definiti dai media anglosassoni, “the frugal four” (i quattro frugali), sono stati offerti sconti di bilancio, che potrebbero costare ai contribuenti italiani circa 11 miliardi di euro.
Eppure, in seguito a questi meccanismi, ci ritroveremmo comunque con 70 miliardi di euro – una somma ben cinque volte superiore a quella che l’Italia avrebbe ricevuto “oggi” dal Piano Marshall. Non c’è quindi da stupirsi se la gestione delle trattative da parte di Conte abbia suscitato l’ammirazione dell’opposizione – fatta eccezione per la Lega, che si preoccupa sul prestito, definito “molto molto pericoloso” (Twitter) dall’onorevole Claudio Borghi, deputato della Lega. Borghi sostiene che, come debito “preferito”, i prestiti dell’Italia da Bruxelles subordineranno le obbligazioni esistenti, rendendole vulnerabili al panico del mercato se le circostanze dovessero cambiare. Ma secondo Giovanni Zanni, Chief Euro Area Economist di NatWest Markets, banca di investimento ramo di NatWest Group (ex Royal Bank of Scotland), non dobbiamo impanicarci poiché gli investitori si concentrano su due cose: la prima è la capacità del governo di ripagare i propri debiti, e con i tassi di interesse in calo, egli prevede che i costi di indebitamento annuale dell’Italia potrebbero presto scendere al 2% del proprio PIL. La seconda consiste nella volontà del governo di ripagare il debito, e con l’euroscettica Lega all’opposizione, non c’è alcuna concreta minaccia che l’Italia lasci l’euro e quindi denomini i suoi debiti in un’altra valuta, o vi rinunci direttamente al pagamento.
Veniamo adesso alle responsabilità dell’Italia.
Uno dei principali freni della nostra crescita economica è il tempo che perdiamo dietro allo Stato. Infatti, la percentuale di persone che dichiarano di spendere più di venti minuti in coda agli uffici anagrafici è aumentata di oltre due terzi negli ultimi dieci anni. Proprio in questi giorni il Parlamento sta infatti analizzando una possibile legislazione promossa da Paola Pisano, Ministro per l’innovazione e la digitalizzazione, per rendere accessibile l’intera gamma dei servizi di governo attraverso una semplice app. Inoltre, il Ministro Pisano ha dichiarato che spingerà per far sì che il denaro di NGEU sia speso per migliorare la connettività e l’educazione digitale, in particolare nel sud del Paese, dove è evidentemente più carente. E questo solleva forse la questione più importante di tutte. L’Italia stessa è forse l’esempio della divisione dell’UE, con un Nord ricco quasi quanto la Germania e un Sud quasi povero quanto la Grecia. Se NGEU potesse essere usato per avvicinare il Sud ai livelli di prosperità del Nord, molti problemi sarebbero risolti, e non solo per l’Italia. Questa impresa è stata tentata molte volte e si è sempre scontrata con gli stessi ostacoli: una mentalità di dipendenza dallo Stato, infrastrutture povere e criminalità organizzata. Le carenze del Sud sono anche il motivo principale per cui l’Italia ha fatto un pessimo uso dei fondi europei del passato. L’Italia non può permettersi di perdere allo stesso modo la più grande opportunità degli ultimi 70 anni. E come il Ministro Pisano ha ribadito su Radio 24: “E’ un treno che passa una volta sola”.