Il precedente articolo sulla manifestazione CGIL, che ha rilanciato, tra l’altro, il salario minimo, ha fatto scaturire un interessante dibattito che ha visto, accanto a nostri lettori più assidui nei commenti, due interventi del prof. Mariti (che ringrazio per la sua attenzione). Un dibattito interessante e vivace che ritengo giusto sottolineare e su cui voglio tornare con questo nuovo articolo.
Il tema del salario minimo per legge è una questione assai importante che non può essere risolta con semplici battute o con superficialità. Cominciamo con introdurre il problema con le parole del prof. Mariti:
Il salario minimo è “un argomento politicamente popolare non solo in Italia, ma in tutti i paesi europei (inclusa l’Inghilterra) e aldilà dell’Atlantico (USA e Canada). Tali leggi interpellano, infatti, i sentimenti umanitari: si tratta di stabilire per legge una cifra minima che garantisca la dignità umana e la sopravvivenza di fatto della persona, un “pavimento” salariale al di sotto del quale si può parlare di sfruttamento puro e semplice.
Quando si arriva al punto di legiferare, di stabilire tale cifra, di prevederne gli effetti sul mercato del lavoro e gli impatti economici più generali, entrano in campo due visioni in conflitto: i mercati del lavoro a salari bassi hanno forma COMPETITIVA o forma MONOPSONISTICA?”
Il problema delle idee, anche le migliori, è che quando si trovano a scendere nel mondo reale compaiono tutti quei dettagli che le rendono meno perfette che nel pensiero.
Nello specifico ci troviamo davanti alcuni problemi:
- A quale cifra minima si deve indicare il punto di sfruttamento?
- Essendo tale cifra naturalmente piuttosto bassa, come e con che meccanismo si prevede di rendere aggiornabile tale minimo?
- Quali effetti collaterali questa introduzione comporta?
È opportuno notare che la cifra su cui si sta ragionando (circa 9€/ora lordi) è, in verità, assai inferiore alla larga maggioranza delle forme contrattuali attualmente in vigore e risulta migliorativa solo per poche specifiche categorie o per “contratti di passaggio” (es. apprendistato).
Quando la segretaria del PD parla di 3 milioni di working poor (lavoratori poveri cioè persone che non guadagnano abbastanza pur lavorando) fa riferimento ad un insieme definito in sede europea che si caratterizza con 4 dati (suggerisco questo interessante articolo per approfondire):
- Deve avere tra i 18 e i 64 anni
- Deve essere occupato nel momento della rilevazione
- deve aver lavorato per almeno sette mesi nell’anno di riferimento,
- in un anno deve avere un “reddito disponibile equivalente” inferiore alla soglia della cosiddetta “povertà relativa” (fissata a un valore approssimativamente pari al 60% del reddito medio a livello nazionale)
Queste condizioni mettono nell’insieme varie classi di lavoratori: coloro che hanno lavori discontinui, i lavoratori part time, gli apprendistati oltre ai “veri” working poor. Non che anche questi non siano problemi (eccezion fatta per gli apprendistati) ma, semplicemente non verrebbero intaccati dall’introduzione di un salario minimo.
L’introduzione di un salario minino potrebbe avere l’impatto più importante su alcuni settori: lavoratori domestici, lavoratori agricoli, alcune aree del commercio e in generale nei lavori a scarsa o nulla qualificazione professionale. Questi però sono anche i settori in cui, a farla da padrone, è l’economia sommersa: sono quasi sempre lavori in cui abbonda il “nero”. In questi settori quindi la vera sfida è l’emersione del lavoro rispetto all’emergenza tariffaria.
Quindi, seppure il risultato che si può cercare tramite l’introduzione del salario minimo sia positivo, l’impatto riguardo alla generalità del lavoro non sarebbe significativo.
In merito al secondo punto, l‘indicizzazione di tale tariffa ad un qualche meccanismo rivalutativo, non è presente alcun dettaglio in proposito nella proposta del centrosinistra. Quindi non ci sono dati per parlarne chiaramente. È evidente che, trattandosi di un minimo e non della generalità dei contratti, non sarebbe impossibile anche pensare un sistema brutalmente legato all’inflazione senza che questo debba necessariamente avere un riverbero inflazionistico. Ma questo sarebbe legato anche alla reale applicazione del salario minimo e al suo grado di importanza nel mondo del lavoro. Dati difficili da stimare in astratto.
Per converso ci sono alcuni effetti negativi da valutare. Infatti si tratta di una introduzione in un contesto che certo non può dirsi di “giungla” delle relazioni datoriali.
Nel nostro paese la scelta, da tempo remoto, è sempre stata quella di favorire la contrattazione nazionale con le grandi organizzazioni piuttosto che quella dei minimi impostati per legge.
Storicamente questo era diventato una specie di monopolio delle 3 principali sigle sindacali con le principali formazioni datoriali (Confindustria Confcommercio/Confesercenti Confartigianato e poche altre).
Recentemente (relativamente) il settore è stato aperto ma non particolarmente normato. Questo ha fatto nascere una pluralità di contratti tra associazioni sindacali-datoriali più o meno sconosciute con contenuti talvolta assai discutibili. Oggi il tema è come mantenere la libertà di significative associazioni di incontrarsi e concordare/trattare un contratto su basi realisticamente paritarie e rappresentative di una porzione non infima di mondo del lavoro.
L’introduzione di un salario minimo andrebbe in direzione opposta: è abbastanza evidente che la definizione di una base giuridico-tariffaria minima per considerare il lavoro “giustamente retribuito” legittimerebbe ipso facto ogni contratto che rispettasse tale minimo. Financo legittimerebbe una contrattazione interna aziendale diretta e totalmente autonoma (contesto monopsonistico quasi per definizione).
Un tale scenario sarebbe quindi una possibile evoluzione di una tale modifica del quadro normativo, specialmente in un contesto che già vede l’eccessiva proliferazione di contratti registrati al CNEL (allo stato sono oltre 1’000).
Non che un simile contesto sia necessariamente nefasto: non è molto diverso da quanto succede negli USA senza neppure avere un salario minimo. Eppure ritengo che sia necessario contemperare la flessibilità nei contratti, necessaria per garantire flessibilità per nuove forme di lavoro (vedere ad esempio i settori ad alta tecnologia che fanno larghissimo uso di smart working più o meno totale e permanente in cui si discute se sia ancora opportuno contare le ore di lavoro piuttosto che altri metodi legati alla produttività individuale) con la difesa dei ceti più deboli del mondo del lavoro.
Perché il salario minimo rischia di diventare anche una soglia attrattiva per la definizione di salari con scarsa competitività (ossia personale con poca specializzazione che è facilmente fungibile e quindi meno capace di trattare la propria posizione). In questo scenario il risultato sarebbe paradossalmente opposto: i ceti più deboli verrebbero appiattiti sul salario minimo con poca prospettiva di allontanarmene.
Il tema in discussione oggi è quindi se sia preferibile sostenere la contrattazione tra le parti come meccanismo di definizione dei contratti, eventualmente spingendo per la nascita di associazioni nei settori ancora privi, o piuttosto quello di sostenere una soluzione draconiana nella fascia bassa del mercato con la conseguente svalutazione del tema della rappresentanza.
In questo fa un po’ specie che sia proprio la CGIL (con il traino della UIL) a chiedere lo spostamento del peso dalla rappresentanza alla legge.
Dato che, finora, sul precedente articolo sul salario minimo hanno interagito solo due persone, ovvero l’esimio, concordo, Prof. Mariti, ed io, laddove nel post attuale leggo:
“… Il tema del salario minimo per legge è una questione assai importante che non può essere risolta con semplici battute o con superficialità. Cominciamo con introdurre il problema con le parole del prof. Mariti…”.
Mi chiedo a chi sia stata attribuita, in tale contesto duale, l’eventuale etichetta di aver risolto la questione con semplici battute o con superficialità e, se le mie eventuali “stupidaggini” non sono gradite, basta dirlo chiaramente e tolgo il disturbo, lasciando il posto alla opinione del Prof. Mariti.
Non era assolutamente mia intenzione riferirmi a quanto detto nei commenti quando dicevo che il tema non può essere ridotto a battute.
Ciò a cui mi riferivo era al taglio che potevo dare all’articolo: ovvero che non avrei potuto fare battute di polemica politica sul tema in quanto, seppure il centrosinistra sta cavalcando un tema per loro scivoloso e che sarebbe facile fargli notare che è contraddittorio e opposto alla loro storia, riconosco che è un’ipotesi rilevante ma non esente da problematiche sia nel caso di adozione che nel caso contrario.
Il riferimento allo scambio di commenti tenuto da lei e da Mariti era invece quello in cui parlo di un dibattito interessante che volevo rilanciare. Il fatto che ho citato Mariti per nome è solo legato alla conoscenza diretta che ho di lui e alla stima per il suo lavoro come economista.
Va bene; grazie per il chiarimento.
Giuseppe.
Per tentare di rispondere alla domanda:
“… i mercati del lavoro a salari bassi hanno forma COMPETITIVA o forma MONOPSONISTICA?”…”,
mi arrischierei a dire che ho l’impressione che fino a poco tempo fa tali mercati hanno avuto forma monopsonistica; dopo l’avvento del reddito di cittadinanza, e fintantoché alcuni potranno godere dell’assistenza anche da parte dei familiari che ebbero migliori condizioni lavorative, i mercati del lavoro danno leggermente l’impressione di dirigersi verso la forma competitiva;
ma temo sia solo un momento di passaggio e, poi, purtroppo, si tornerà alla forma monopsonistica.
E, temo, non solo per i salari bassi o, addirittura, in nero, ma anche per tutti gli altri salari ben regolamentati; finché la necessità di rilanciare i consumi, che altrimenti calerebbero, costringerà a ricontrattare in meglio i salari.
Diciamo, per usare una battuta (chiedo venia) che potrà fare più il consumismo che i sindacati o il salario minimo.
Se uno specifico mercato del lavoro sia caratterizzato dall’una forma competitiva o dall’altra e’problema del tutto empirico, da verificare di volta in volta. Temo , sulla base delle conoscenze disponibili, che assai poco si possa dire in generale. Ecco perché introdurre e poi variare un salario minimo legale è problema complesso è difficile, come ben si può desume dalla ragionata ( sebbene non esaustiva) elencazione delle domande da porsi offerta da Bicocchi. I problemi sociali ed economici sono sempre molto complessi e nel caso di specie uno strumento importante ma semplice/rozzo come il salario minimo può anche sortire effetti non previsti/ prevedibili.
Naturalmente nel mio altro stringato e generale commento non sono entrato in merito alle tante variabili che, immagino, potrebbero influenzare la caratterizzazione in forma monopsonistica o competitiva del mercato del lavoro, anche perché i lavoratori cui il salario minimo si rivolgerebbe è riferito, come il post precisa, in generale o a persone con non particolare specializzazione salvo mano d’opera generica, o non specializzati in campi attualmente ricercati dal mercato del lavoro.
In generale penso che per tutti gli altri lavori che richiedano particolare specializzazione, e che in altri Paesi sono retribuiti in maniera maggiore che nel nostro, che comunque rimane monopsonistico, molti si trasferiscano in altri Paesi.
Anche per atri lavori che offrano relativamente bassi compensi per lavori di bassa specializzazione e che richiedano molta fatica e, forse, orario maggiore di quello generalmente previsto e con poche o nulle (nel caso del lavoro in nero) garanzie, il mercato rimane monopsonistico e, quindi, i datori di lavoro lamentano scarsità di risposta alla loro offerta di lavoro; tanto più se trattasi di lavori a tempo determinato stagionale.
Anche costoro, forse, qualora siano in grado di farlo, potrebbero cercare all’estero garanzie migliori.
Ci sono poi coloro che, poveretti, purtroppo sopravvivono, o forse anche vivano ben retribuiti, ISEE a parte, con espedienti vari.
Direi, ad impressione generale, quindi, che a parte quanto espresso nel mio precedente commento, il mercato del lavoro in Italia rimanga, non solo per le fasce basse di retribuzione, monopsonistico.
Non mi sembra appropriato sentir parlare, da parte di alcuni politici, di “poveri” da assistere tassando maggiormente (oltre alla progressività già esistente e conforme alla Costituzione) chi lavori, e imponendo patrimoniali e tasse di scopo a chi già abbia pagato quanto previsto per legge sul reddito.
Penso che, nella situazione attuale del nostro Paese, il chiedere di dare di più a chi più abbia per risolvere il problema dei “poveri” dovrebbe essere sostituito dal rendersi conto che, i poveri, in una Repubblica democratica fondata sul lavoro, non dovrebbero esistere e si dovrebbe essere in grado, da parte di chi sia stato eletto a rappresentare, di fare politiche che permettano il rispetto della Costituzione facendo politiche atte a creare lavoro.
Altrimenti mi sembrerebbe erroneamente di rischiare di leggere che la nostra sia una Repubblica fondata non sul lavoro ma sulla assistenza (per usare un eufemismo) alla povertà; povertà che si dovrebbe risolvere non “ridistribuendo” il frutto del lavoro altrui, ma permettendo a tutti, col lavoro, “di non essere poveri”: a costo di trasformare il sistema monopsonistico in un sistema competitivo, magari assumendo nel pubblico e ritornando alla forma pubblica per alcune delle attività socialmente essenziali in passato privatizzate: in questo modo si potrebbero evitare i cosiddetti extraprofitti i quanto in campi socialmente essenziali forse non dovrebbero esserci “profitti” di privati, ma reinvestimenti nel perseguimento del servizio sociale offerto.
Come recita un vecchio proverbio, non diamo loro un pesce, ma una canna da pesca (trattasi di metafora essendo io vegetariano).
Mando questo articolo di Ichino che chiarisce diversi aspetti problematici in argomento
https://lavoce.info/archives/101549/questioni-aperte-in-tema-di-salario-orario-minimo/
Ho letto l’articolo, e non sono d’accordo con lo stesso.
Non sono d’accordo perché ritengo che la differenza di potere d’acquisto, citata, tra costo della vita e del lavoro tra Nord e Sud, abbia delle motivazioni, per esempio e, soprattutto, là dove leggo dello squilibrio dovuto al fatto che al Sud la concorrenza del lavoro irregolare è molto più intensa che al Nord e il costo della vita è al Sud più basso.
Rifletto che sembrerebbe, da ciò che leggo, che esista quindi, anche, una diversa ottemperanza alle regole, tra le diverse regioni italiane.
Ritengo che questa non sia una situazione da accettare e regolamentare, cavalcandola, in base a tale accettazione.
Penso che tale differenza di sviluppo, e dei motivi che determinano tale differenza, tra le varie regioni italiane debba non essere istituzionalizzata, ma corretta e contrastata, affinché in Italia tutti possano godere dello stesso standard e livello di vita e, soprattutto, di stato sociale che, immagino, anche se non mi sembra citato nell’articolo, sia conseguente a tale situazione, in special modo, da ciò che sento dai media, in merito al Servizio Sanitario Nazionale (per cui molti sono costretti ad andare a curarsi al Nord per scarsità di personale nelle strutture ospedaliere e sanitarie).
Mi sembrerebbe quindi non molto logico legiferare in merito ad una situazione che si spera venga corretta e che evolva in meglio, invece di legiferare assecondandola.
Per quanto poi riguarda le richieste di certa politica che chiede di alzare le tasse sulle rendite, mi chiedo se ci si riferisca alle rendite finanziarie. Se così fosse mi chiederei se, allora, dopo aver alzato le tasse sulle rendite finanziarie, che so, su eventuali guadagni di borsa, di contro, in caso di eventuali perdite di borsa, allora, si prevedesse un rimborso di Stato sulle perdite, cosa che attualmente non esiste.
Mi sembrerebbe un po’ come se, a fronte di eventuali tasse su guadagni derivanti da gioco nei casinò, si prevedesse un rimborso da parte dello Stato sulle perdite.
Bizzarro.
Riflettendo poi sulle due due visioni in conflitto, i mercati di lavoro a forma monopsonistica o a forma competitiva, escludendo particolari tipi di lavoro basati su qualità reali o commercialmente attribuite a particolari lavoratori (artisti, sportivi ecc., che hanno un certo margine di trattativa coi datori di lavoro o con i loro acquirenti) mi chiedo se ci sia un qualsiasi Paese democratico del mondo in cui viga la forma competitiva o in tutti viga la forma monopsonistica, ovvero quella in cui, essendo i lavoratori in numero maggiore rispetto ai datori lavoro, ovvero l’offerta di lavoro minore alla domanda di lavoro (vera, o presunta bleffando che sia) essi debbano
(salvo rivendicazioni sindacali in caso siano in grado di avere successo negli scioperi in particolari momenti e situazioni)
sottostare ad offerta salariale bassa o meno derivante dal rapporto suddetto tra domanda ed offerta.
Quindi, parlando in ambito nazionale di qualsiasi Paese democratico del mondo, la mia impressione è che in tutti i Paesi viga la forma monopsonistica, e che quella competitiva sia solo teorica.
Chiaro che, poi, parlando della possibilità di spostarsi per lavoro da uno all’altro tra questi Paesi
(nei quali, per diverse condizioni economiche vigono prezzi e salari diversi)
si può dire che, a livello globale viga all’interno di ogni Paese la forma monopsonistica ma, a livello intra Paese, possa vigere la forma competitiva; ovvero: in ogni Paese vige la forma monopsonistica ma, a livello globale mondiale, tra i vari Paesi, può vigere la forma competitiva.
Spero di non aver scritto castronerie.
Per quanto riguarda il tentativo di eliminare per legge la forma monopsonistica con, per esempio, il salario minimo, temo che, purtroppo, per la legge della domanda e dell’offerta, in un Paese democratico ciò non potrebbe, giusto o sbagliato eticamente che sia, avere successo.
Perché, se già ora sembra che esista il cosiddetto lavoro nero, chi impedirà, dopo una eventuale
(a parte la discutibile utilità anche da parte di chi dovrebbe usufruire del salario minimo, se non perfettamente congegnato)
conversione in legge del salario minimo di eluderlo, o col lavoro nero, o con tutte le altre forme che, purtroppo, apprendiamo esistere, di aggiramento illegale delle regole?
Per questo scrivo che, a questo punto, tanto varrebbe ripristinare lascala mobile, famigerata o meno che sia.
Anche se, anche per questa, se non si perseguono ancor più perfettamente gli illeciti, il discorso rimane lo stesso.
Io non sono in grado di capire se la politica della BCE nell’alzare i tassi per frenare l’inflazione sia adeguata oppure no alla situazione italiana ma, a questo punto, forse, meglio una legge famigerata come la scala mobile che null’altro o poco.
Ma potrei sbagliare; ho dei limiti di conoscenza, altrimenti starei al posto di chi prende decisioni.
Laddove scrivo, nel mio commento precedente
“… Mi sembrerebbe un po’ come se, a fronte di eventuali tasse su guadagni derivanti da gioco nei casinò, si prevedesse un rimborso da parte dello Stato sulle perdite…”
mi accorgo che l’esempio non quadra.
Pardon.
Confermo però:
Per quanto poi riguarda le richieste di certa politica che chiede di alzare le tasse sulle rendite, mi chiedo se ci si riferisca alle rendite finanziarie. Se così fosse mi chiederei se, allora, dopo aver alzato le tasse sulle rendite finanziarie, che so, su eventuali guadagni di borsa, di contro, in caso di eventuali perdite di borsa, allora, si prevedesse un rimborso di Stato sulle perdite, cosa che attualmente non esiste. Naturalmente il commento è sarcastico.