Oggi non si può davvero parlare di qualche cosa di diverso dalla morte di Berlusconi. Ne parla, in modo quasi esclusivo, ogni giornale, ogni sito di informazione e gran parte dei cittadini.
Non vogliamo però unirci al coro dei necrologisti né dei coccodrillisti. Non abbiamo intenzione di portare ricordi particolari di una persona che, nel bene e nel male, ha accompagnato la vita di ciascuno di noi, che ha segnato la storia repubblicana degli ultimi 30 anni. In particolare non parleremo della vita e delle opere dell’uomo ma solo delle riflessioni che ci porta a fare la fine di una storia.
Vogliamo però evidenziare che una tale copertura non si era verificata mai in passato. Non per politici, non per grandi sportivi né per grandi personaggi dello spettacolo. È semplicemente la più grande notizia che è stata raccontata negli ultimi 50 anni. O, perlomeno, è la più grande narrazione che si è avuta.
Si usa dire che la morte ci rende tutti uguali. Come spesso accade con i detti, è vero solo a metà. Ci rende uguali nel senso che, non importa quanto uno sia importante o irrilevante, intelligente o sciocco, ricco o povero: tutti moriamo. Ma il giorno di oggi rende evidente che non siamo tutti uguali nel giorno della morte. Rende evidente che ci sono forme di immortalità che superano la morte.
È l’immortalità di cui parlavano Foscolo e Leopardi, di cui parlavano i grandi autori latini e prima i greci. L’immortalità del ricordo delle persone che lasciano di sé “più vasta orma”.
Sono i grandi della storia che la forgiano e lasciano così un’impronta nella stessa: lo fanno con il loro fare del bene e con il loro fare del male. Perché la storia degli uomini è fatta così: di bene e di male. Santi e peccatori. A volte più della prima pasta che della seconda, a volte è la seconda che prende il sopravvento fino a far perdere le tracce della prima.
Eppure la nostra vita vale di più della traccia che lasciamo. Vale di più della storia che forgiamo.
Verremo ricordati dai posteri per quella traccia, per quella storia. Ma siamo attesi nella vita eterna per quello che siamo, per l’amore che viviamo.
Da una parte aspiriamo alla gloria. Aspiriamo al riconoscimento. E ammiriamo chi quella gloria l’ha conquistata.
Dall’altra cerchiamo l’eternità della vita, dell’anima.
Il mondo ama la gloria. Ma la gloria consuma l’anima. Pochi sopravvivono alla gloria del mondo senza esserne consumati, senza esserne trasformati nella caricatura di un uomo. È difficile resistere al desiderio di riconoscimento, anche nella forma dell’adulazione, e troppo spesso siamo bisognosi di un apprezzamento che venga dall’altro.
L’aspirazione all’eternità però è un problema che si risolve solo nel rapporto con Dio. Nel rapporto con una grandezza che annichilisce ogni grandezza umana. Nella ricerca del senso pieno che è amore di Dio per l’uomo: non per quello che fa ma per quello che è.
«Come potete credere voi che cercate la gloria gli uni dagli altri?» è la domanda che formula Gesù ai suoi interlocutori del tempo.
Se cerchiamo la gloria abbiamo molti esempi che ci possono ispirare. Gli uomini grandi del presente e del passato che hanno lasciato di sé storie belle ed esempi validi.
Se, invece, cerchiamo l’immortalità dobbiamo farci domande diverse e dobbiamo recuperare il senso della trascendenza, il senso di Dio. Perché le due cose non sono incompatibili in assoluto ma sono indubbiamente strade diverse.
Andrea Bicocchi @Andrea_Bicocchi
Foto di Luca Luperto