Elisa Giulia è una ragazza ed è la figlia del conosciutissimo imprenditore lucchese Giovanni Petroni, a capo dell’azienda Emmegi a Capannori insieme al suo socio, prima che il Coronavirus lo portasse via.
Petroni, 59 anni, sano, sportivo e con una vita davanti è forse la prima vera vittima di questa pandemia che ha messo in ginocchio il nostro paese. Una cena tra amici a Segromigno, quella che sembrava una serata spensierata ma che si è rivelata invece l’inizio della fine.
Ci sono storie ricche di dolore e bellezza e che è giusto raccontare, per ricordare chi ormai non ha più voce per parlare e per trasmettere quei messaggi colmi di speranza e ottimismo che in un momento del genere sono vitali per il nostro paese.
Elisa Giulia Petroni, in questo struggente racconto, la cronaca dell’ultimo mese di suo padre, ha ripercorso tutti i passaggi dolorosi di questa tremenda vicenda che, inaspettatamente, ha dovuto vivere.
Dai primi sintomi, all’incredulità di un possibile contagio da Covid-19, ai tamponi fatti in ritardo fino alla corsa contro il tempo per salvare un uomo, un padre, che purtroppo ha perso la sua battaglia.
E’ una storia che forse vorremmo non sentire, in cui sarebbe giusto aspettarci il lieto fine perché Giovanni Petroni, Elisa Giulia e tutta la sua famiglia si meritavano un lieto fine: non è andata così ed è inutile cercare di trovare un motivo, puntare per forza il dito contro qualcosa o qualcuno, come ci insegna proprio Elisa Giulia. La vita accade e spesso non possiamo far altro che aggrapparci ad essa con le unghie e anche quando sembra non restare niente ci rendiamo contro che il cammino, seppur doloroso, è e deve essere ancora lungo.
Elisa Giulia è forte, una guerriera moderna, abituata a una vita che non sempre con lei è stata clemente ma non per questo non degna di essere vissuta. Questa non è una semplice intervista ma una testimonianza preziosa che speriamo possa servire come esempio per una maggiore consapevolezza di quello che abbiamo e di tutto quello che potremmo non avere più.
Tutto sembra ricondursi a quella famosa cena tra amici, dove tuo padre era presente e dalla quale sono comparsi i primi contagi di Covid nella zona.
Come è iniziato tutto? Probabilmente tutti avevamo un po’sottovalutato la situazione, ti aspettavi tutto ciò?
La certezza non c’è ovviamente ma è molto probabile e quasi scontato che tutto abbia avuto inizio durante quella cena a Segromigno. Mio padre, a fine febbraio, era andato in quel ristorane per un ritrovo tra amici, ancora il Coronavirus non era un’emergenza, nessun italiano si era ancora contagiato, solo qualche giorno dopo è uscita la notizia di Mattia, il ragazzo di 36 anni considerato il primo paziente. A quella cena erano presenti molte persone, tutte che lavorano nel settore calzaturiero e che quindi erano state nelle settimane precedenti in giro per l’Italia e che, probabilmente, si sono contagiate e hanno trasmesso il virus a molti presenti, tra cui mio padre e mio zio. Alcune sono state ricoverate in terapia intensiva ma ne sono uscite bene, solo mio padre non ce l’ha fatta.
Quindi anche tuo zio ha contratto il virus?
La famosa cena è avvenuta il 21 febbraio 2020 ed il primo ad ammalarsi è stato proprio mio zio che ha riscontrato febbre molto alta e malessere ma che è riuscito a guarire da solo in qualche settimana. Alla luce dei fatti oggi possiamo supporre che avesse il Covid, dico “supporre” perché non è stato fatto nessun tampone né a lui, né a nessuno, né prima della morte di mio padre e nemmeno adesso.
Come si è svolta la malattia di tuo padre?
Mio padre si è ammalato tre giorni dopo la cena a ristorante, esattamente il 24 febbraio 2020. La mattina si è svegliato con la febbre molto alta ma nessuno pensava, tantomeno io, al Coronavirus. Io credevo avesse preso l’influenza, era sempre presto e ancora il caos Covid non si era innescato e credo proprio di poter dire che mio padre è stato il primo ad affrontare la malattia in modo così grave.
Dopo 5 giorni di febbre alta e il sopraggiungere dell’affanno il medico curante gli ha prescritto una radiografia così mio padre si è presentato in ospedale, sempre con la febbre, e dall’esito dell’esame è stato riscontrato un focolaio al polmone.
E’ stato quindi ricoverato a quel punto e sottoposto al tampone?
No, nonostante il focolaio non è stato ritenuto necessario fare il tampone per “assenza di sintomi da Coronavirus”, così ci è stato detto.
Mio padre è quindi tornato a casa con una cura che ovviamente non prevedeva l’ossigeno e questo lo ha portato a peggiorare sempre di più fino al 4 marzo 2020, dieci giorni dopo la comparsa dei primi sintomi, quando la compagna di mio padre, che viveva con lui, mi ha avvertito che aveva chiamato l’ambulanza perché papà stava sempre peggio. Mi ricordo quella mattina, quando arrivai lo stavano caricando sull’ambulanza tutti dotati di dispositivi di sicurezza. È stata l’ultima volta che ho visto mio padre, anche se da lontano.
È stato prima ricoverato a Lucca al San Luca e poi spostato a Firenze?
Si, una volta arrivato in ospedale a Lucca (4 marzo 2020) è stata eseguita una seconda radiografia che ha evidenziato una polmonite bilaterale a dimostrazione di quanto il virus può essere aggressivo e veloce visto che la prima radiografia, eseguita il 29 febbraio 2020, evidenziava solo un focolaio.
A quel punto è stato inevitabile sottoporre mio padre al tampone Covid al quale è risultato positivo e per me e per la mia famiglia è stata davvero una sorpresa incredibile, non ci credevamo visto che pensavamo che non avesse avuto nessun contatto, in città in quel momento nessuno era un possibile portatore del virus.
Fin da subito le condizioni di mio padre sono apparse gravi e appena arrivato in ospedale al San Luca è stato intubato perché la procedura lo richiedeva, non riusciva a respirare bene e in quei giorni a casa tra la prima radiografia e la seconda era peggiorato notevolmente. Dopo una settimana è stato trasferito a Firenze per essere sottoposto a un’altra terapia più mirata in quanto là era presente una terapia intensiva dedicata ai malati Covid.
In quella terapia intensiva è rimasto circa un mese, fino al 19 aprile 2020, quando è arrivata la triste notizia della sua scomparsa. Durante quel periodo è stato attaccato all’ECMO, un macchinario di respirazione extracorporeo, perché i polmoni erano troppo compromessi. Nei giorni prima della sua morte era però migliorato, i valori sembravano rientrati, era stato svegliato anche se sempre intubato, e aveva iniziato a fare riabilitazione. Anche se i medici non si sono mai sbilanciati questa era per me una grande notizia, sentivo come se il peggio fosse passato. Sapevo che la ripresa sarebbe stata lunghissima ma sapevo che mio padre era forte ed ero ottimista.
Purtroppo invece dopo qualche giorno dal miglioramento la situazione è crollata nuovamente e mio padre non ce l’ha fatta.
Sei riuscita ad andare a trovare tuo padre durante la lunga degenza e a salutarlo?
No, nessuno ha più visto mio padre. Io sono andata da lui l’ultima volta il 3 marzo 2020, il giorno prima che lo ricoverassero, per sbrigare delle commissioni e stava molto male, ma sono stata solo qualche minuto perché, convinta che avesse una forte influenza e io vivendo con mio nonno anziano, non volevo rischiare di prendere niente. Da quel giorno non lo abbiamo più visto. La regola degli ospedale durante l’emergenza sanitaria era quella che nessuno poteva andare a trovare il malato e anche se avessero fatto uno strappo alla regola dopo avremmo dovuto affrontare di nuovo la quarantena. In ogni caso le visite, in quel momento, erano davvero pericolose: potevi vedere i pazienti da dietro un vetro, per poco tempo, ed esposto a un rischio di contagio molto alto, la terapia intensiva ai tempi del Covid non era sicuramente un ambiente dove poter stare, tanto più quando si è sotto stress e debilitati.
Non ci ho potuto nemmeno parlare al telefono, è sempre stato intubato. Solo quando lo hanno svegliato, quei giorni che sembrava stare meglio prima che morisse, gli hanno dato il telefono e quando ha sentito la voce della sua compagna ha sorriso, non poteva parlare ma era cosciente e felice in quel momento.
Direi che il Covid non è quindi un’influenza, come molti sostengono?
Il Coronavirus è un virus davvero brutto e subdolo, ci sono giorni che sembra sia scomparso e pensi di aver fatto un passo avanti, mentre subito dopo ti ritrovi nel baratro. Anche mio padre sembrava farcela, i medici puntavano su di lui, era un uomo giovane, sano e sportivo eppure anche quando i valori sembravano essersi stabilizzati, i reni migliorati e il peggio sembrava passato, in pochi giorni si è di nuovo aggravato in modo irreversibile fin quando non se ne è andato.
Nelle terapie intensive Covid, soprattutto nel periodo in cui mio padre si è trovato lì e cioè nel bel mezzo del caos, la situazione era davvero complicata. I medici erano in difficolta, nonostante io sia molto contenta di come è stato trattato mio padre. Il Coronavirus non è influenza, soprattutto per chi lo sviluppa in modo aggressivo, ci sono cure da affrontare pesantissime, come quelle che venivano usate inizialmente anche su mio padre e cioè gli antiretrovirali usati anche per l’Hiv. Sono delle bombe che debilitano il corpo a lungo andare e provocano molta sofferenza.
Sicuramente ogni caso a sé, le statistiche dicono che le donne sono meno colpite rispetto agli uomini ma io credo personalmente che il virus sia più aggressivo quando il corpo è anche minimamente debilitato e con ciò intendo anche una banale frescata, un inizio di influenza.
Dopo il ricovero di tuo padre è stato fatto il tampone a te e alla tua famiglia suppongo?
Non sai quanto ho lottato per avere quel tampone, non tanto per me ma per mio nonno con cui vivo e che è anziano e ha problemi respiratori. Se avesse contratto il virus sarebbe stato davvero problematico.
Dopo il ricovero di mio padre siamo stati messi tutti in quarantena ma a nessuno è stato fatto il tampone perché non avevamo sintomi, nemmeno a mio zio che ha avuto la febbre alta per settimane e che, è risultato solo dopo positivo al sierologico.
Ho chiamato senza sosta per avere la possibilità di fare il tampone ma nessuno si è presentato. Una volta chiamarono dicendo che sarebbero venuti a farlo ma poi nessuno è arrivato e alla mia richiesta di spiegazioni dissero che io avrei detto prima di avere la febbre e quindi loro sarebbero venuti ma poi avrei chiamato per dire di non averla più e quindi non era necessario che venissero: tutto questo è falso, è una bugia.
La più grande preoccupazione è stata per mio nonno, ho dovuto vivere in camera per 15 giorni nella sua stessa casa con il terrore che potessi attaccargli il virus, è stato tremendo e ancora oggi non sappiamo, né io né la mia famiglia, se abbiamo contratto il virus.
Come hai gestito i giorni di quarantena? Quanto è difficile la situazione delle famiglie dei malati di Covid?
E’ stato davvero difficile, sia io che mia zia, che solitamente mi aiuta, eravamo in quarantena quindi io mi sono ritrovata in casa da sola con mio nonno senza la possibilità di badare a lui. Nessuno è venuto ad aiutarmi, ho provato molte volte a contattare associazioni ma non c’erano i mezzi in quel momento per operare, i volontari non erano dotati di dispositivi di sicurezza e non riuscivano a svolgere il lavoro richiesto e nessuno era reperibile.
Era davvero un caos, nessuno mi ha fornito mascherine e sono riuscita ad averne qualcuna solo attraverso conoscenze personali, stavo chiusa in camera a giornate e scendevo solo per badare a mio nonno, con mascherina guanti e tanta paura gli davo le medicine il più in fretta possibile e tornavo in camera mia. Il cibo me lo portava una cara amica di famiglia già pronto ma il vero problema era lavare mio nonno, non potevo avvicinarmi, non volevo metterlo a rischio e da solo non è in grado. Mi ricordo che per due settimane l’ho fatto lavare a pezzi, lui urlava a me dal bagno alla camera per sapere come fare e io gli davo le indicazioni da lontano.
E’ stata davvero dura, se da una parte vivevo aspettando la telefonata dell’ospedale dove era ricoverato mio padre, dall’altra la situazione a casa era altrettanto drammatica.
E’ stata importante per me la rete psicologica di Capannori, che ringrazio, ogni giorno uno psicologo mi chiamava e per quanto io sia molto riservata, mi faceva piacere anche solo far due parole con qualcuno per non sentirmi ancora più sola di quanto già lo ero.
Nonostante questo anche dopo i 14 giorni di quarantena abbiamo continuato a mantenere le regole di prima, i giorni relativi al possibile contagio sono abbastanza indicativi, un amico di mio padre è stato positivo per 70 giorni!
Credi che siano stati fatti degli errori su tuo padre? Se avessero fatto subito il tampone alla prima radiografia?
Nessuno si aspettava che mio padre avesse il Coronavirus e nessuno saprà mai come sarebbe andata se le cose fossero state gestite diversamente.
Sicuramente se fosse stato fatto il tampone la prima volta che si è presentato in ospedale con la febbre alta e un focolaio avremmo acquistato tempo e le cure sarebbero state più tempestive invece di lasciarlo una settimana a casa senza ossigeno e con l’aggravarsi della malattia. Poi non so se l’esito sarebbe stato lo stesso, nessuno può saperlo. Non do la colpa a nessuno, come sui tamponi mancati, non sono giudizi, capisco che la sanità in quel momento si è trovata in grande difficoltà, con mancanza di materiale, anche dei tamponi stessi, e di fronte a qualcosa che non sapevano ancora gestire bene.
Pensi sia giusto, ora che l’emergenza sembra rientrata, tornare alla vita di prima?
Sicuramente è bene prestare ancora un po’di attenzione perché non siamo ancora usciti dal Coronavirus e, alla fine, sappiamo poco e niente e le notizie dei media non ci aiutano visto che dicono sempre tutto il contrario di tutto. A me personalmente è tornata la voglia di fare qualcosa, di tornare alla vita di prima anche per staccare un attimo, dimenticare è impossibile, ma distrarsi per qualche ora sì. Non vado dove c’è gente, non mi va di frequentare molte persone e rispondere a tutte le loro domande, ma non mi nego la mia colazione al bar o una giornata al mare in tranquillità. È giusto tornare alla vita, molte persone hanno bisogno della quotidianità, per non parlare di tutte quelle aziende travolte dalla crisi economica. Mi auguro che tutto possa tornare alla normalità perché in questi ultimi mesi ho vissuto dentro un film.
Come ti ha cambiato questa triste esperienza?
Purtroppo mia madre è morta 6 anni fa e già da allora ero cambiata molto. Mia made si è ammalata quando ero piccola e questo mi ha obbligato ad essere per forza più matura della mia età, ad avere la testa sulle spalle, mi sono sempre divertita ma sempre nei limiti.
Al momento la perdita di mio padre la sto gestendo bene ma essendo una cosa che non mi aspettavo assolutamente probabilmente non realizzo ancora completamente quello che è successo, sicuramente succederà come quando ho perso la mia mamma e ho capito davvero la sua mancanza quando avevo voglia di raccontarle qualcosa ma lei non c’era più.
Adesso continuo a vivere con mio nonno, lui non sa niente della scomparsa di mio padre, suo genero, qualche volta mi chiede come mai non è passato a pranzo, ma io fingo che se lo sia dimenticato.
Spesso in questi ultimi mesi mi sono chiesta: perché proprio a me?
Sono cresciuta vedendo mia madre malata e adesso ho perso mio padre nel modo più inaspettato che potessi immaginare. Sono nata forte e mi sono dovuta abituare per forza a quello che mi è successo nella vita.
Perdere un genitore è sempre un dolore inspiegabile ma il Coronavirus non è solo una malattia ma una bestia che ti attacca la mente: ti trovi da solo, non puoi avere l’aiuto di nessuno e tutto questo è tremendo.
Mi ritengo fortunata perché dalla mia sono molto autocontrollata e so gestire anche le situazione più estreme ma per le persone più deboli una cosa del genere può risultare davvero pericolosa.
Con la morte di mio padre ho deciso di intraprendere anche professionalmente una via che mai avrei immaginato: ho deciso di lavorare nell’azienda di papà, la Emmegi che vende articoli di calzaturificio e che è nata tanti anni fa dall’idea di mia madre, frutto del suo spirito imprenditoriale, e che mio padre e il suo socio decisero, dopo anni di esperienza, di seguirla e mettersi in proprio.
Probabilmente ho dovuto rinunciare ai miei viaggi e la strada che mi ero immaginata non era certamente questa ma sono felice di fare ciò per i miei genitori, sono sicura che sono orgogliosi di me.
Queste sono le parole strazianti, dolcissime e ricche di speranza anche se colme di dolore, di una ragazza di 32 anni, una ragazza che la vita l’ha resa forte a tutti i costi ma che la sofferenza non ha spento quella sensibilità e quell’ottimismo di guardare ancora il futuro con il sorriso.
Se da una parte la preoccupazione di un padre malato in ospedale sia ingestibile, parallelamente il Coronavirus ci ha mostrato quanto l’essere soli ad affrontare tutto possa rivelarsi un dramma nel dramma.
Ci sono momenti in cui la vita ci pende a schiaffi e la pandemia ce l’ha insegnato fin troppo bene, ci sono situazioni che sfuggono di mano prima che possiamo afferrarle, ci sono volte in cui non è possibile dimenticare, e questa è una di quelle.
Nessuno si aspettava tutto ciò, tantomeno Elisa Giulia avrebbe mai creduto di dover affrontare una tale esperienza e per di più da sola.
Questa giovane donna ci ha raccontato il calvario di una famiglia distrutta da una perdita improvvisa con il sorriso sulle labbra, quel sorriso che racchiude gli sforzi di una battaglia estrema, quel sorriso di chi sa lottare, di chi sa ridere nel pianto e non possiamo far altro che sorridere sommessamente con lei, augurandole una vita ricca di successi e felicità.