(prosegue il racconto cominciato con:
Negli articoli precedenti abbiamo visto quale evoluzione ebbe il sistema politico dal dopoguerra fino agli anni ’70. E, soprattutto, come si avvitò su sé stesso negli anni ’80 perdendo irreparabilmente la fiducia della gente e corrompendo l’idea stessa di politica per acquisire un facile consenso elettorale comprato con denaro pubblico. È questo uso disinvolto della cosa pubblica che innesca una diffusa corruzione e giustifica il profondo discredito pubblico su cui la procura di Milano avvierà la sua nota inchiesta. Inchiesta che era pienamente giustificata dallo stato della politica italiana di quei tempi ma che fu condotta con una finalità che poco hanno a che fare con la giustizia. Infatti, sin dall’inizio apparve chiaro che l’inchiesta aveva come obiettivo la mirata uccisione del pentapartito: della DC e del PSI in particolare. E vene immediatamente emulata da molte altre procure che si mossero in modo molto omogeneo, mettendo nel mirino i medesimi partiti.
Le radici di questa assonanza tra soggetti diversi vanno ricercate in quello che era successo molto prima. La battaglia per la cultura, persa dai Bianchi, aveva portato anche ad una diffusa presenza di opinion leader, in prevalenza di area Rossa, fuori dalla politica. Nella magistratura, come apparve evidente anche allora. Ma, soprattutto, nei settori della cultura. Questi fecero da amplificatore alle manifestazioni contro la politica ma anche sostennero “la differenza morale” tra Rossi e Bianchi. Differenza che si poggiava sull’assunto che i primi non erano andati mai al governo nazionale e quindi non potevano essere ritenuti colpevoli dello stato in cui si era ridotta la nostra democrazia. E pazienza se le inchieste, in realtà, fossero in gran parte rivolte a comportamenti di enti locali o a metodi (finanziamenti illeciti ai partiti) che applicava anche il PCI.
È veramente difficile sostenere che tangentopoli non sia stata una inchiesta politicizzata. Non perché, come già detto, nei suddetti partiti non ci fosse di che indagare e punire. Ma le azioni intraprese dalle procure andarono molto oltre la legalità. E la direzione di indagine fu sostanzialmente a senso unico. Questo non solo per le amministrazioni nazionali ma anche per le amministrazioni locali del territorio dove partiti come il PCI avevano consuetudini e collusioni non certo diversi dai peggiori esempi della DC.
Poi arriva Berlusconi, con Forza Italia. Nasce la Lega (da soggetti di area PCI). Dalla disintegrazione della DC si formano sia l’UDC che il CCD. E nasce il centrodestra. Simmetricamente, dalle rovine della DC (assieme ad UDC e CCD che vanno a destra), nasce la Margherita che si orienta a sinistra.
Il PCI, in progressiva crisi di identità, dopo il crollo del muro di Berlino (1989), trova per la prima volta la possibilità di andare al potere. Ma, a questo punto, si trova senza più un progetto per il paese. Intendiamoci, la crisi del progetto di “stato comunista” era già cominciata da un po’, con il progressivo appannamento dell’immagine della Russia. Ma, dopo il crollo del muro, crolla anche l’ultimo barlume di progettualità di medio e lungo periodo. La sinistra, progressivamente, si trova a reinventarsi un progetto “progressista” di stampo anglosassone se non proprio americano. E si trova ad inseguire una dirigenza ex DC. Un ribaltamento dei ruoli che fa impressione. Nasce così l’alleanza con la Margherita. Il PCI si dà una rinfrescata abbandonando la parola “comunista”, ormai non più presentabile, e diventa prima il Partito dei Democratici di Sinistra (ampolloso nome che già ridefinisce il radicamento anglosassone nel termine «democratici»), dopo Democratici di Sinistra (lasciando anche il termine «partito», ancora troppo legato a ciò che era e che non si voleva più ricordare) e infine PD, incorporando il mondo Margherita (ex sinistra DC) e facendo di Prodi il leader (egli pure ex DC).
Gli anni ’90 sono il percorso introduttivo di questa nuova repubblica e ne condividono i tratti salienti che sono arrivati fino a noi: abbassamento del livello di competenze dei politici; esaltazione dell’inesperienza come garanzia di purezza; personalizzazione dei partiti nel leader; progressiva meccanica di cooptazione della classe dirigente che premia la lealtà al capo rispetto alla capacità di giudizio; e, soprattutto, progressivo allontanamento degli eletti per il parlamento dal rapporto diretto con il territorio.
Ci sono però due ultime «forze» che provengono dalla vecchia repubblica e che incidono sul decennio, seppure agendo in direzioni opposte e con opposti metodi: da una parte il movimento politico del Patto Segni, dall’altra la grande burocrazia dello stato che guiderà una rivoluzione silenziosa.
I secondi sono gli ispiratori di alcune riforme dell’organizzazione dello stato (su tutte le leggi Bassanini) che seguono alla stagione di mani pulite. Sono riforme che puntano a rendere la macchina dello stato “indipendente” dall’azione del potere politico. Sulla base di una idea che l’amministrazione possa essere imparziale e oggettiva; persino più efficiente, se lasciata indipendente e libera di operare e onorata come una magistratura. Il che, implicitamente e inevitabilmente, vuol dire anche immobile e cristallizzata. Sono riforme ispirate da un sistema, quello della grande dirigenza pubblica, più vicino alla sinistra che al nuovo (e, in quel periodo, piuttosto disorientato) centrodestra e che mirano a dare alla burocrazia una indipendenza sulla gestione operativa che significa, soprattutto, sulla sua stessa sopravvivenza ai cambi di potere. Cambi che si annunciano frequenti e ripetuti, a differenza dei quasi 50 anni precedenti.
È la reazione che ha la grande burocrazia alla novità di un sistema di alternanza che temono possa implicare anche alternanza nei posti chiave dell’amministrazione burocratica. Alternanza che, per chi è cresciuto e divenuto «potente» con l’inamovibile Pentapartito, è come un pugno in faccia. Sfruttano, a loro vantaggio, la forza dell’indignazione popolare contro la politica che, per tutti gli anni ’90, soffia fortissima in Italia. Sono la forza contro cui il primo governo Berlusconi (quello del ’94) proverà a scontrarsi portando idee di rinnovamento massiccio della struttura pubblica e contro cui, di fatto, perderà. Berlusconi, quando torna al potere nel 2001, sarà tanto conscio della cosa che non tenterà più nessuna vera riforma della macchina dello stato limitandosi a programmi assai più generici e di macroeconomia.
Queste riforme, e questa impostazione della grande burocrazia, sono poi sopravvissute fino a oggi. E ancora condizionano la struttura dell’amministrazione. Un’amministrazione che non brilla certo per efficienza o senso dello stato ma che pare impossibile da riformare e rendere efficiente, come gli ultimi venti anni ci hanno mostrato.
La tradizione della politica della DC, però, negli anni ’90 ha anche un altro protagonista: Mario Segni. Quest’ultimo comincia la sua battaglia per riformare il sistema assai prima che “mani pulite” cominciasse. Siamo alla fine degli anni ’80. Segni, figlio dell’ex Presidente della Repubblica e dirigente di spicco della DC, lancia un manifesto per abrogare il sistema delle preferenze e passare ad un sistema maggioritario perché indicava nei giochi delle correnti, il punto di equilibrio di un sistema che andava marcendo. Comincia così la stagione dei referendum con il primo che viene celebrato nel ’91. Il referendum passa con il travolgente risultato di un 96% di sì e un’affluenza del 62%.
È l’inizio di una battaglia che si protrarrà per tutti gli anni ’90 per cercare di costringere i partiti a scegliere una dirigenza realmente radicata sui territori. Una battaglia che vede i partiti, sia di destra che di sinistra, alternativamente favorevoli o, al massimo, scettici, mai apertamente contrari. Ma solo apparentemente perché, nella sostanza, hanno abbracciato la linea della autosufficienza e presa di distanza dall’elettorato. Linea che è evidentemente più comoda e consente alla dirigenza margini di manovra fino ad allora sconosciuti. E, soprattutto, una posizione che trova una naturale saldatura con la grande burocrazia dello stato, sempre più padrona del funzionamento dello stato. È un percorso che, per la maggiore esperienza della leadership dei partiti del centrosinistra, è più rapido e più saldo con questa parte politica ma è comunque efficacemente ricercato (e trovato) anche da Forza Italia.
I successivi referendum del ’93 raggiungono un importante successo di affluenza, ulteriormente cresciuta fino al 77% e favorevoli dalle parti del 90%. A fronte dei successi referendari, però, la politica fa muro di gomma: le leggi abrogate vengono costantemente sostituite con altre diverse ma simili a quelle rimosse mentre formalmente i partiti si plaude alle istanze referendarie. Questa inamovibilità, progressivamente, logora la fiducia della gente nelle istituzioni. Logoramento che si vedrà nelle successive affluenze al voto, permanentemente in calo.
A questa disaffezione contribuirono, in realtà, anche soggetti che, in quegli anni, abusarono dello strumento con una serie di consultazioni davvero impressionante. Nel decennio in questione (’90 – ’00) si celebreranno ben 39 diversi referendum.
Tra i soggetti promotori di questa messe di consultazioni ci sono i Radicali di Pannella, che hanno sostenuto i primi referendum elettorali e che sono degli habitué della richiesta di dare voce direttamente al popolo. Ma anche altri soggetti restano affascinati dalle possibilità referendarie: sindacati, partiti, istituzioni regionali. Così vengono sottoposti agli italiani quesiti su un po’ di tutto: commercio, giustizia, turismo, spettacolo, contrattazione e rappresentanze sindacali, RAI, pubblicità e assetto radiotelevisivo privato, caccia, ordini professionali, obiezione di coscienza e altro ancora.
La battaglia politico-referendaria prosegue, comunque, in parlamento con il Patto Segni che cerca di smuovere il sistema politico. Le proposte di sistemi elettorali maggioritari vengono sempre “ammorbidite” e, contestualmente, aumentano sempre di più le riserve che i partiti si tengono per l’elezione dei propri referenti. La proposta per il “sindaco di italia” (recentemente rispolverata) nasce in questo periodo, ma, nome a parte, non riesce a sfondare. Un buon esempio di questo metodo di ammorbidimento è il sistema di voto prodotto in questo periodo e noto come mattarellum, un sistema maggioritario (75%) “temperato” con il proporzionale (25%) che, per la prima volta, non prevede alcuna forma di preferenza ma solo nomina da parte dei partiti.
L’ultima battaglia è quella del 1999. Viene proposta l’abolizione della quota proporzionale del mattarellum. Il referendum resta in bilico fino al termine degli scrutini: alla fine fallirà, tra le polemiche, per un esiguo 0,4% al raggiungimento del quorum (a fronte di un sì al 91%). E il non raggiungimento del quorum, per i partiti, è indicazione sufficiente per abdicare ad ogni forma di rinnovamento e spinta a ricollegarsi con la cittadinanza e per voltare le spalle alla maggioranza degli italiani. Su questo risultato peserà fortemente la presenza, nelle liste elettorali degli italiani all’estero, di un numero di iscritti tutto da verificare. E largamente superiore al numero che mancava per la validità del referendum stesso.
Intorno a quest’ultimo referendum, in quella lunga notte, la politica rimase in attesa e in bilico tra trasformazione e continuità. Il risultato fu la finale sconfitta del tentativo di riformare il sistema politico che ignorò le indicazioni elettorali (e i quasi 30 milioni di elettori che avevano chiesto un cambiamento), e saldò il legame tra politica e amministrazione dello stato. E aprì la strada a leggi elettorali come il porcellum e al sistema che conosciamo oggi.
Il sistema politico prese, così, la strada dell’arroccamento e del populismo che, con tratti diversi e accenti di ciascuno, ha caratterizzato la politica dagli anni ’00 ad oggi.
Andrea Bicocchi @Andrea_Bicocchi