Se tornate voi, io resto a casa: 32mila morti, ma tutti volevano l’aperitivo e il parrucchiere

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Mi ricordo quando eravate sui balconi a intonare l’inno d’Italia che non cantavate dalla finale dei mondiali 2006. Ricordo anche gli arcobaleni disegnati dai bambini ai quali avete rubato la spontaneità dello slogan “Andrà tutto bene”, perché fino a quando lo facevano i bambini era una delle poche cose da salvare di questa infausta epoca per noi italiani. 

Ricordo che ci telefonavamo con i tanto odiati smartphone e che il concepimento della videochiamata come strumento utile del nostro vivere è diventato il nuovo argomento di punta degli scopritori dell’acqua calda, una specie di asso nella manica da giocarsi alla riapertura dei bar. Ricordo tutto come fosse ieri, nonostante sembrino già preistoria le immagini delle città vuote e silenziose che invadevano i social network, degne di una scena della pellicola “Pastsciutta nel deserto” del grande regista Carlo Ludovico Bragaglia, artista capace di tenere in scena il genio di Totò. Chissà come avrebbe raccontare la nostra generazione finto borghese che ha dovuto riporre due mesi nel garage le auto noleggiate a lungo termine e ha dovuto rinunciare al parrucchiere. Sai che tragedia

Ricordo le ricette casalinghe: polpettoni, pane in lievitazione, lasagne, bucatini alla carbonara e pizze la domenica. E ricordo soprattutto i moniti di speranza di una nuova umanità, di un futuro costruito più sul rispetto, sulla sostanza e meno dell’apparire, su quella corsa al consumo delle cose, del tempo e della vita che fino a marzo 2020 sembrava essere l’unico motivo significante dell’esserci. Questo avrebbe dovuto insegnarci il Coronavirus, si diceva, e anche io un po’ ci avevo creduto o perlomeno lo speravo. 

Ma non è andata così. La mandria urlante che non incontravi più per strada, si era spostata sulla home dei nostri profili Facebook e a ogni scrollata erano insulti, rabbia, esperti tuttologi laureati in terza media che un giorno ti insegnavano l’economia, un giorno le più sofisticate nozioni di medicina e il fine settimana addirittura raccontavano un mondo diviso tra popolo bue sottomesso e grandi potenze internazionali che avrebbero voluto ridurci in miseria inventandosi un virus che in realtà non sarebbe esistito, nemmeno fossero alti funzionari dei servizi segreti. E io che mi chiedevo: ma a cosa serve studiare se basta avere uno spazio libero dove scrivere dieci righe in chissà quale lingua per incensare sapere

Erano le stesse persone di sempre, quelle che non volevamo vedere prima e che ci ritroveremo sempre in mezzo quando vorremo costruirci un futuro con le nostre forze e il nostro talento. Perché, se vogliamo raccontarci la novella Boccaccesca della fantomatica “normalità” in cui tutto andava bene prima del Coronavirus, cancelliamo dalla nostra memoria quell’andrà tutto bene che abbiamo rubato ai bambini. Andrà male, malissimo forse, come andava male fino a ieri. Perché la normalità è tornata più forte di prima e non basta una mascherina, divenuta ben presto un accessorio di moda e non più qualcosa che dovrebbe proteggerci da un mostro che ha causato oltre 32mila vittime, per evitare di riconoscersi. Siamo sempre gli stessi, quelli che volevano andare a fare l’aperitivo in piazza, al mare la domenica e a correre nei parchi, che poi io tutti questi sportivi non li avevo mai visti, e quelli che ogni mattina si chiudevano nelle macchine con l’aria condizionata gelata, in coda lungo le mura, sulla Firenze – Mare, allo svincolo autostradale di Firenze Nord. Chi se ne frega dei familiari o dei figli che in questi due mesi ci siamo goduti a casa, l’importante era la normalità. Che brutta parola. E questo mica vuol dare ragione a chi dal balcone fa la caccia all’untore con il binocolo. Assolutamente no. Quelli ci saranno sempre perché un domani ce l’avranno con qualcuno che tiene la musica troppo alta nel suo appartamento o che misurano ogni giorno la distanza del confine con il vicino aspettando il suo primo passo falso. Però abbiamo perso un’occasione per crescere. Per rendere la normalità un paese più bello da abitare, dove si deve tornare a lavorare e a impegnarsi per il nostro futuro, non per farsi i selfie su Instagram. Abbiamo perso un’occasione per non dimenticare chi in questa immane tragedia ci ha perso la vita, ci ha perso un padre, una madre, un nonno, un fratello, un amico, senza nemmeno poter piangere accanto alla sua bara, senza nemmeno poter dare un’identità al dolore. Ditelo a loro che la vostra normalità è lo spritz il venerdì in piazza, ditelo ai familiari di Lorenzo Papini, l’imprenditore di 73 anni di Ponte a Moriano, deceduto ieri dopo una lunga battaglia contro il Coronavirus, che tanto per questo virus muoiono solo i vecchi. Ditelo a questa gente che avevate voglia dell’hambuger di Mc Donald’s. Però non dite niente a me, perché se siete tornati voi, io resto a casa. 

Andrea Spadoni
Andrea Spadonihttp://www.andreaspadoni.com
A 25 anni potevo aver già fatto tutto: il diploma di ragioniere, il lavoro in banca e la villetta a schiera. Non è andata così. Sono un giornalista mio malgrado, e oggi mi guadagno da vivere aiutando le persone a comunicare su internet, ma il mio sogno è sempre stato quello di tagliare il prosciutto di Parma al banco di una gastronomia.

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