Lucchese doc, nato e cresciuto nel Centro Storico, Marco Baldocchi, imprenditore ed esperto in Neuromarketing, ha appena ottenuto il visto O-1 dagli Stati Uniti d’America, una tipologia di visto che viene rilasciato solo a chi è riconosciuto come un’eccellenza nel proprio settore. Non solo un documento per entrare nel Paese, ma un vero e proprio riconoscimento delle capacità e del successo di questo ricercatore e imprenditore che qualche anno fa è partito da un piccolo ufficio senza riscaldamento a Guamo.
Il Neuromarketing è una disciplina nata in tempi piuttosto recenti (circa una 20ina di anni fa) ed è fondata sull’applicazione delle neuroscienze al tradizionale mondo del Marketing. Analizzando la risposta del cervello ad alcuni stimoli (video, immagini o materiale pubblicitario di vario tipo), è in grado di determinare quali sono i meccanismi che spingono le persone ad acquistare un certo prodotto.
Attraverso la sua azienda Marco Baldocchi Group, si dedica da oltre 15 anni alle Neuroscienze applicate al Marketing, ha pubblicato un libro (Neuromarketing per il food. Strategie per una comunicazione efficace), ne ha scritto un secondo di prossima uscita (Neurofood, con la nota casa editrice Hoepli) ed è Neuromarketing Research Director di AssoNINA (Associazione Nazionale Italiana delle Neuroscienze Applicate).
Che effetto le ha fatto sapere di aver ottenuto il visto O-11 e che, quindi, gli USA le riconoscono i meriti nel suo campo?
Sono molto contento di aver ottenuto questo riconoscimento, innanzitutto perché spero che la mia storia possa essere di esempio per coloro che pensano di non avere possibilità, per il semplice fatto di essere nati in provincia e non in una grande città come Milano o New York. Io sono la dimostrazione che, partendo da Lucca, con il duro lavoro si possono ottenere grandi soddisfazioni. In provincia, purtroppo, c’è una logica a mio avviso frustrante: lavora più spesso chi ha i contatti che non chi lo merita davvero. L’America è più basata sulla meritocrazia, me ne sono accorto da quando ho aperto la mia agenzia a Miami 4 anni fa.
Questo riconoscimento è frutto di un lavoro lunghissimo, iniziato nel periodo di Presidenza di Trump, in quel momento era molto difficile ottenere visti, in generale. Non solo, grazie ad un amico ho scoperto che prima del Covid questo visto veniva concesso a circa 100mila persone all’anno, a fronte di una popolazione di 300milioni. E’ stato un percorso lungo e difficile, ma ho deciso di non mollare nonostante le difficoltà e questo mi ha premiato.
Questo visto è non-immigrante, mi riconosce come portatore di conoscenza: è una differenza molto importante per il modo in cui vieni visto dagli Americani. Il mio obiettivo è trasferirmi lì per tenere alto il nome degli Italiani negli Stati Uniti.
Certamente non deve essere facile dividersi continuamente tra Italia e USA…
Sicuramente. La mia azienda è a Lucca nel 2005, ho aperto la sede a Miami 4 anni fa; questo visto mi dà la libertà di muovermi. Parallelamente ho iniziato una docenza con la Business School del Sole 24Ore, a breve ne inizierò un’altra per un master della Cattolica di Milano: sono tutte attività svolte in presenza, mi sposto continuamente.
In Italia il mondo del neuromarketing è qualcosa di ancora poco chiaro o, comunque, poco applicato, persino in aziende di medie o grandi dimensioni.
Il Neuromarketing è un settore non chiarissimo perché se ne sta parlando troppo. Mi spiego: quando un argomento diventa “di moda”, emergono molti guru che spesso non sono competenti e non possiedono la strumentazione necessaria. Alcune aziende si affidano a queste personalità e poi non ottengono i risultati che avrebbero voluto. Mi fa sorridere chi parla di Neuromarketing e poi non ha mai letto un encefalogramma o non ha mai visto un software per il riconoscimento delle espressioni facciali, per esempio. Da un lato c’è questa problematica, dall’altro c’è una resistenza del mercato italiano verso le novità, si fa fatica a capire che investire in attività di questo tipo fa risparmiare tempo e soldi e fa ottenere risultati migliori. Bisogna fare informazione, prima di formazione. Non a caso l’anno scorso avevo organizzato la Neuromarketing Academy, in cui ho raccolto alcuni dei relatori più importanti al mondo in questo settore, per cominciare a fare chiarezza e spiegare cosa voglia dire Neuroscienze applicate al Marketing.
Le aziende italiane sono quindi diffidenti…
Molti pensano che il Neuromarketing sia costoso, che sia qualcosa che possono permettersi solo le aziende più grandi, ma non è così. Le ricerche non hanno necessariamente costi esagerati, tutto dipende dal tipo di ricerca e dal campione su cui si va ad operare. In italia però ci sono solo aziende top player che per il momento si stanno approcciando al Neuromarketing. E pensare che un settore come la pubblica amministrazione, per esempio, potrebbe sfruttare tantissimo questo ambito di ricerca; li aiuterebbe a capire davvero cosa pensano i cittadini e li aiuterebbe tantissimo anche nella promozione turistica dei territori, perché permetterebbe di realizzare materiale pubblicitario, come video ed altri, davvero efficaci, oltre che belli esteticamente.
E Lucca, invece, come si pone in questo contesto?
A Lucca abbiamo tantissime eccellenze, aziende bravissime ciascuna nel proprio settore. Se però ci fermiamo ad analizzare bene, sia loro che i loro competitor nella pubblicità fanno tutti leva sugli stessi bisogni e le stesse necessità dei clienti. Per esaltare ancora di più la loro eccellenza, dovrebbero domandarsi qual è il bisogno nascosto del cliente, perché una volta capito questo, nelle loro campagne marketing potrebbero fare leva su un bisogno inconscio del cliente e ciò li porterebbe ad ottenere risultati molto migliori, quindi a vincere.
Ci può spiegare cosa intende con “bisogno inconscio dei clienti”?
Faccio l’esempio di Uber (servizio di trasporto tramite auto private che attraverso una app collega direttamente guidatore e passeggeri, ndr). Quando nacque, c’era davvero bisogno di un servizio di quel tipo, dal momento che esistevano già i taxi? A prima vista no. Ma Uber punta sul bisogno inconscio di sicurezza del cliente, perché grazie ad Uber non devi aspettare il taxi in strada, magari di notte in un brutto quartiere, la app ti avverte quando il tuo mezzo è arrivato. Non solo, puoi sapere prima il nome del guidatore, la targa dell’auto e tutta una serie di altre informazioni che ti fanno sentire sicuro di salire a bordo. In questo senso Uber soddisfa il bisogno latente di sicurezza di chi ha bisogno di spostarsi.
Qual è il vantaggio del Neuromarketing?
Il bello di questo ambito è il fatto di avere una controprova scientifica di quello che andiamo a riferire al cliente, perché non si tratta dell’opinione di me Marco, ma di dati oggettivi che dimostrano come stanno davvero le cose. A volte accade che, facendo delle ricerche, si scopre che l’idea che l’azienda aveva di un certo prodotto, store o servizio è completamente diversa rispetto a quello che in realtà percepisce il mercato. E la prova scientifica può non piacere, ma è inconfutabile.
Come è arrivato a lavorare in questo settore?
E’ nato tutto da un’esperienza personale. Mi occupavo di strategie di comunicazione e un giorno, decidendo di cambiare auto, mi sono imbattuto in una pubblicità bellissima di un fuoristrada. Da sempre amo andare in montagna, quella macchina mi dava un senso fortissimo di sicurezza e divertimento, così l’ho acquistata. Quando è arrivata, però, mi sono accorto che era enorme e avevo difficoltà a spostarmi e a parcheggiare nel Centro Storico, dove vivo. La pubblicità non era ingannevole, ma quell’auto non era adatta al mio uso quotidiano. Perché allora l’ho acquistata? Ecco, è partito tutto da questa domanda. Ho iniziato ad approfondire l’argomento, a informarmi e poi sono partito per gli Stati Uniti per studiare meglio questa disciplina. Ancora oggi studio molto, perché il Neuromarketing è un settore in continua evoluzione, mi nutro del lavoro dei neuroscienziati e faccio ricerca attraverso la mia azienda. E’ un mondo affascinante, perché ti consente di capire la macchina complessa che di fatto è l’uomo.
La classica domanda finale: progetti per il futuro?
Con la mia famiglia abbiamo intenzione di trasferirci negli Stati Uniti, prendere Miami come base e continuare a portare avanti tutte le attività a Lucca e in Italia. Con una moglie e due bambini piccoli con meno di 3 anni, è particolarmente complesso.
A parte il trasferimento, il mio progetto è innanzitutto proseguire nella strada che ho intrapreso. In più, grazie anche alle attività di formazione che sto portando avanti, vorrei mettere in pratica il principio del give back, come lo chiamano negli Stati Uniti: vorrei restituire agli altri quanto di bello la vita mi ha regalato. Sono stato fortunato, ho ricevuto tanto non solo nel lavoro, ma anche nella vita privata e adesso vorrei restituire ciò che ho avuto, dare un’opportunità a chi veramente lo merita.