Se ci chiediamo cosa tiene insieme il nostro sistema civile, la risposta non è “leggi e costituzione”, ma il principio di partecipazione responsabile. E la responsabilità è legata alla razionalità.
Semplificando molto, il principio di razionalità era talmente al centro nel passato che, per secoli, aveva diritto di partecipare alle decisioni solo chi apparteneva a ceti alti. Con l’implicita (e non sempre effettiva) supposizione che questi avessero una maggiore cultura e quindi capacità di comprendere e decidere razionalmente.
Più di recente, all’incirca nel corso degli ultimi due secoli, la democrazia è stata progressivamente estesa a tutti. E, contemporaneamente, ci si è posti il problema di come rendere le persone in grado di farlo, tramite grandi programmi di scolarizzazione.
Ma lungo tutto questo periodo la politica è stata una grande passione collettiva. Era importante e determinante. La gente ne avvertiva il peso e la passione. Era, potremmo dire oggi, “cool”.
Tutto era “politica”.
Il nuovo millennio ha cambiato le carte in tavola. E lo ha fatto rapidamente.
Da una parte la formazione culturale e scolastica delle persone (un po’ in tutto l’occidente, ma molto di più in Italia) ha subito un calo sensibile (non è questo il luogo per parlarne, ma il tema è epocale ed estremamente grave). Dall’altra la comunicazione ha preso dei canali completamente nuovi e ancora da comprendere a fondo.
Ma ciò che più di tutto è calato è il senso di responsabilità delle persone riguardo alla stessa politica. La convinzione, cioè, che il nostro futuro dipenda realmente dalle scelte che facciamo e dalle deleghe che diamo. E, con lo svanire di questa convinzione, se ne va anche l’attenzione alle scelte che vengono fatte. E si lascia spazio a scelte non più ponderate, senza sforzarsi di capire le conseguenze a medio e lungo periodo, fatte in modo “istintivo” o per interessi di breve o brevissimo periodo.
Oggi, infatti, la comunicazione è stata “disintermediata”. Un trend che abbiamo visto bene negli Stati Uniti con Donald Trump. E che può essere preso efficacemente ad esempio di quanto stiamo dicendo.
Trump si è impadronito di un mezzo di comunicazione che gli ha consentito di non dover rendere conto a nessuno di inesattezze, errori e cambi di direzione. Un palcoscenico senza contraddittorio e senza avversari.
Grazie a Twitter (e al fatto di essere già un personaggio pubblico e un attore nato) ha costruito un mondo immaginifico e violento che ha fatto breccia nel cuore del suo paese. E si è preso, dall’esterno, uno dei due grandi partiti svuotandolo di rappresentanza democratica. Perché il rapporto con il popolo lo aveva direttamente e privatamente lui, tramite appunto Twitter. E tutti gli altri politici del suo schieramento dovevano e tuttora devono elemosinare da lui anche il solo diritto di esistere sulla scena politica.
In Italia è stato Matteo Salvini che ha usato i social (in questo caso soprattutto Facebook) come canale di comunicazione e palcoscenico virtuale. Con la sostanziale accettazione delle regole comunicative fatte di protagonismo, personalismo, messaggi divisivi e semplificazioni. Il tutto fatto in modo efficacissimo.
Quali sono dunque le regole di questo nuovo mondo? La comunicazione deve essere “scandalistica”. Perché questo mondo virtuale è governato da un algoritmo che premia le interazioni: più un tuo post è condiviso, avversato, discusso, apprezzato, replicato, ecc. e più viene rilanciato, raggiunge un numero di persone elevato, viene promosso, viene presentato a un maggior numero di persone.
È un tipo di arena che ha regole precise: vince chi è più condiviso.
Quindi? Messaggi brevi semplici ed emotivi, perché le emozioni inducono ad una reazione immediata. Viceversa, i messaggi complessi e cerebrali sono quelli che ci fanno capire più cose. Ma richiedono tempo per essere compresi e impegno per essere condivisi con gli altri. Non sono “sexy”, non sono roba che si condivide con un “tap”.
Ma, in una democrazia chi ha più voti vince. E, se non c’è la mediazione della ragione e della ragionevolezza, direi soprattutto della riflessione sulle conseguenze a medio e lungo periodo delle scelte che si vanno a fare, allora vince semplicemente chi è più popolare.
Nel mondo “antico” in cui la popolarità veniva dal riconoscimento di una pluralità di soggetti guidati dalla razionalità, come potevano essere degli addetti al mestiere (politici) o degli interpreti riconosciuti (la stampa), la necessità di una comunicazione razionale e che guardava al futuro era ed è evidente. Ma questo era il mondo antico, quello del secolo scorso.
Nel nostro attuale mondo, guidato da algoritmi che premiano gli entusiasmi, le elezioni le vince chi lavora sulle emozioni delle persone, non chi propone soluzioni ai problemi. Vince chi spaventa, esalta o rassicura. Vince chi parla ai sentimenti non alla mente. Ma se si vuole parlare ai sentimenti non si parla di quello che avverrà tra 5 o 10 anni ma solo di ciò che si farà nei prossimi giorni o, al massimo, mesi.
È abbastanza per preoccuparsi? Beh, c’è anche dell’altro.
Abbiamo appena dato il via ad una nuova legge che consente di firmare per dei referendum direttamente on-line, sull’onda, ancora una volta, delle emozioni.
Ma è stato fatto senza pensarci bene, senza adeguare i sistemi ai cambiamenti che si fanno. Tipo che il quorum di firme da raccogliere di persona con i banchetti, non può essere uguale a quello di una raccolta on-line. Perché per raggiungere il primo devi fare un mare di comunicazione e, alla fine, tutti sapranno che c’è un tema su cui si dovrà prendere una decisione e i tempi per organizzare anche un dissenso nell’opinione pubblica sono dilatati. È successo così con tutti i referendum che hanno cambiato il paese: da divorzio e aborto al maggioritario o al nucleare. Tutte discussioni epocali, che hanno cambiato la sensibilità del paese.
Ma ora non è più così. Ora basta una campagna mirata su Facebook, condita con un messaggio emotivo ben fatto, e si raggiunge il quorum in poche settimane senza che scatti una presa di coscienza collettiva. E così ci troveremo con referendum su temi sensibilissimi (liberalizzazione di alcune droghe, eutanasia e chissà quali altri temi) che verranno proposti a ritmo incalzante. L’unico filtro sarà la Corte costituzionale che speriamo ponga limiti ma, ancora una volta, la politica ha lasciato che le cose andassero senza farsi molte domande: ha agito di istinto per soddisfare delle minoranze rumorose.
Una tale democrazia può sopravvivere? Possiamo davvero smettere di preoccuparci e lasciare che siano i sentimenti a governare il nostro futuro? Può, cioè, prosperare una “democrazia emotiva”?
A mio avviso, no. O meglio, può sopravvivere ma non può vincere la competizione internazionale. Perché come già detto, la democrazia non è la sola forma di governo che c’è al mondo. E non è neppure la più diffusa.
E se non sarà neppure quella che assicura i migliori standard di vita ai propri cittadini, perderà ogni fascino….
Andrea Bicocchi @Andrea_Bicocchi