Pennarello, mano aperta e tintinnar di manette: si combatte davvero così l’omofobia?

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In queste ore – complici anche i riposizionamenti di Renzi e il pugno di ferro di Letta – è tornata di cronaca la discussione sul DDL Zan, tecnicamente denominato proposta di legge recante “misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”.

Nelle scorse settimane la questione ha letteralmente diviso l’Italia, con gente che si imbrattava le mani solo per postare le foto sui social e fare outing del proprio recentissimo interesse per i diritti civili. L’Accademia, nel frattempo, storceva il naso: un mostro sacro come il Prof. Padovani – uno che di diritti civili se ne intende davvero, senza alcun bisogno di foto sui social – ha detto di essere letteralmente inorridito dal testo della proposta di legge. Parola di un radicale di lusso, non certo di un picchiatore in camicia nera.

A prescindere da ogni strumentalizzazione politica, il DDL Zan presenta sicuramente una parte opportuna e meritevole che prevede politiche attive, proposte di sensibilizzazione, di monitoraggio e di prevenzione che passano soprattutto dall’impegno delle amministrazioni locali e della scuola. La proposta, tuttavia, prevede anche un’altra parte – quella più discussa e più scomoda, tanto politicamente quanto giuridicamente – volta a un sostanziale ampliamento della discutibile “Legge Mancino”. Un ampliamento che passa dalla modifica dell’art. 604 bis del codice penale (rubricato “Propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa”) e dell’art. 604 ter dello stesso codice (che prevede la “Circostanza aggravante”).

Si tratta di capire, in definitiva, quali modifiche verrebbero apportate agli artt. 604 bis e 604 ter del codice penale in caso di approvazione del DDL Zan.

Tecnicamente, laddove il DDL Zan venisse approvato così com’è, verrebbe punito con la reclusione fino ad un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 euro non più solo “chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi” [testo attualmente in vigore], ma anche chi lo fa per motivi “fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità”.

Ancora, verrebbe punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni anche chi, oltre a “istiga[re] a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi” lo fa per “motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità”. Ci sarebbe, inoltre, un’ulteriore modifica al secondo comma dell’art. 604 bis c.p., che attualmente prevede il divieto di “ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi“. A tale disposizione verrebbero aggiunte le seguenti parole: “oppure fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità”. Peraltro, “chi partecipa a tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi, o presta assistenza alla loro attività, è punito, per il solo fatto della partecipazione o dell’assistenza, con la reclusione da sei mesi a quattro anni. Coloro che promuovono o dirigono tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da uno a sei anni”.

Vi sarebbe, poi, un’ulteriore aggiunta all’art. 604 ter c.p., che attualmente prevede una circostanza aggravante “per i reati punibili con pena diversa da quella dell’ergastolo commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso”. In caso di approvazione, infatti, dopo le parole “o religioso” verrebbero aggiunte le parole “oppure per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità”.

Perché, dunque, allo stato attuale la proposta di legge non sembra condivisibile?

Seppure ispirato da ragioni di tutela della comunità LGBT, il testo è viziato dalla radicata convinzione che si possa trovare il rimedio a ogni ingiustizia e a ogni male sociale attraverso strumenti di tipo penale. La struttura giuridica su cui poggia il DDL Zan è infatti proprio quella della Legge Mancino: un testo legislativo già caratterizzato da ragioni di natura puramente simbolica e di marketing elettorale, che mal si conciliano con il ruolo residuale e di extrema ratio che dovrebbe ispirare il diritto penale in un ordinamento democratico.

La critica di molti (della Politica più illuminata, dell’Accademia, ma anche delle associazioni LGBT più sensibili), dunque, si muove nel solco di una più ampia e severa valutazione nei confronti della Legge Mancino: una Legge che – accompagnata dagli squilli di tromba di una certa politica – doveva sconfiggere e sradicare il malcostume del razzismo italiano ma che, tuttavia, come ha dimostrato l’esperienza, alla fine si è rivelata incapace di raggiungere l’obiettivo. Una Legge, inoltre, gravata da un chiaro vizio in termini di tassatività (a tal proposito, per capire, si veda anche l’art. 4 del DDL Zan, rubricato “Pluralismo delle idee e libertà delle scelte”), di offensività e di materialità, tutti corollari del principio di legalità che dovrebbe presidiare il nostro sistema penale.

Il ricorso al diritto penale non è, quindi, la strada giusta per combattere le discriminazioni: le risorse da attivare per un serio cambio di prospettiva sono solo di tipo educativo, formativo, culturale e sociale. Introdurre nuove fattispecie di reati di opinione – che andrebbero ad arricchire il patrimonio, già cospicuo, lasciatoci in eredità dal legislatore fascista – non è la soluzione e non aggiunge ulteriore tutela rispetto a quella già offerta dall’ordinamento.

Senza scomodare Feuerbach e la funzione di “prevenzione generale” del diritto penale, nel tempo molte personalità autorevoli (su tutti, il Prof. Moccia) hanno più volte sottolineato che l’introduzione di nuovi reati del genere – lungi dal poter risolvere i problemi – rischia solo di rafforzare il fenomeno, perché la conseguenziale punizione a campione finisce addirittura per vittimizzare l’autore e, quindi, per fungere da fattore di possibile aggregazione di consensi intorno a ciò che si intendeva combattere. In pratica, sotto il profilo degli effetti sociali, in questo modo si raggiunge l’effetto opposto rispetto a quello sperato.

Ebbene, la risposta si ottiene solo ed esclusivamente rimuovendo le cause socio-individuali che sono alla base della discriminazione, attraverso un impegno più profondo e complesso di quello che può consentire il diritto penale. Un atteggiamento di mera repressione, infatti, esprime soltanto i disvalori dell’inefficienza e della caduta delle garanzie.

In Italia c’è già abbondanza di marketing politico e di populismo: il ricorso al diritto penale non è lo strumento adeguato a cui affidare il complesso e articolato compito di sensibilizzazione e attenzione sul tema. Nessun reato cambierà una convinzione sociale diffusa e radicata, perché la soluzione non passa dalle sanzioni e dalle manette, ma dalla cultura e dall’istruzione. In definitiva, i luoghi in cui combattere non sono le aule di tribunale e le carceri, ma le scuole e i centri di aggregazione.

In foto, il Prof. Tullio Padovani e il noto influencer Sarti Magi, entrambi intervenuti sul tema.

Giovanni Mastria
Giovanni Mastria
Nato a Lucca, classe 1991. Scrivo con passione di cultura, attualità, cronaca e sport e, nella vita di tutti i giorni, faccio l’Avvocato. Credo in un giornalismo di qualità e, soprattutto, nella sua fondamentale funzione sociale. Perché ho fiducia nel progetto "Oltre Lo Schermo"? Perché propone modelli e contenuti nuovi, giovani e non banali.

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