“Francamente non avrei immaginato che oggi sarei stato qui ad annunciare la mia candidatura alla guida del Partito Democratico”: queste le prime parole di Letta quando, di fronte alle telecamere, ha sciolto la riserva sulla sua candidatura a segretario del PD. Che dire? Francamente neanche noi, caro Enrico.
“Non cerco l’unanimità, io cerco la verità!”, ha poi continuato Letta. E, diciamocelo, come avrebbe potuto essere altrimenti? Per carità, c’è chi ha letto in queste parole un atto di coraggio, un atto di passione e di forza politica. Però c’è anche chi – ma guai a dirlo ad alta voce – ha interpretato tale frase come un avvertimento, un presagio sinistro: caccia aperta agli uomini di Renzi, colui che politicamente ha silurato il neo-segretario nel lontano 2014. Caccia aperta a coloro che ancora oggi – seppure siano formalmente rimasti nel PD – occupano posti chiave all’interno delle Istituzioni e hanno un contatto diretto con l’attuale leader di Italia Viva. Della serie, la vendetta va servita fredda. Gelida, anzi.
Negli ultimi mesi il clima nel partito era diventato irrespirabile, con gli esponenti di Area Riformista considerati come fumo negli occhi. Niente più che un fastidioso prolungamento dell’uomo di Rignano, una corrente ritenuta a tutti gli effetti la destra del partito, quella responsabile di aver ucciso – per utilizzare i termini degli antirenziani – le radici comuniste del PD. E soprattutto qui a Lucca, con l’ingombrante presenza di Marcucci a fare ombra dal colle, ne sappiamo qualcosa.
Gli ultimi giorni prima della nomina di Letta, poi, sono stati terribili. Prima Zingaretti in visita dalla compagna Barbara D’Urso, come già aveva fatto Matteo Renzi, e fin qui nulla quaestio. Poi Mattia Santori al Nazareno, munito di quelle tende da coglioni che si usano quando a quindici anni si fanno le prime nottate fuori durante le estati liceali. Per carità, non siamo a Botteghe Oscure e quindi gliela perdoneremmo anche, al PD. Solo che, purtroppo, dietro a questa celebre sardina che ride sempre c’era la foto di un gigante come Berlinguer. L’Enrico quello vero, insomma, non Letta. Chissà che trauma se avesse assistito alla scena.
Letta, dicevamo. Cognome ingombrante, ma le colpe – se così possono chiamarsi – degli zii non ricadano sui nipoti. Come qualcuno di molto saggio ha correttamente fatto notare, infatti, il problema del PD non è il segretario. Il problema del PD è il PD: un partito pieno di presunti professori della politica, soggetti autoreferenziali che si piacciono davvero tanto, che si sentono Togliatti e De Gasperi ma che vanno ciascuno per conto proprio. Avvoltoi travestiti da falchi, in pratica.
Quando nacque, nel 2007, il Partito Democratico raccoglieva principalmente le istanze della Margherita e dei DS. La volontà – neppure troppo nascosta – era quella di arginare Berlusconi e la degenerazione dei costumi tipica del berlusconismo, nel suo senso più deteriore e talvolta becero. Il sogno? L’Europa e le riforme, ma quali siano esattamente queste fantomatiche riforme rimane ancora un dato da comprendere.
Il problema in realtà è genetico, perché all’interno del PD – seppure ci si è sempre affannati a precisare il contrario, salvo poi cantare Bella Ciao prima delle elezioni per intercettare i voti dei nostalgici – si è tentato senza fortuna di sintetizzare posizioni da prima Repubblica: da una parte quelle dell’ex PCI e dall’altra quelle della DC, che si scrive così ma si legge – appunto – Enrico Letta. Gli uomini rimangono tali, e legittimamente si portano dentro le proprie esperienze e la propria formazione culturale e politica.
Ma, alla luce di quello a cui abbiamo assistito negli ultimi mesi, ha davvero senso continuare insieme? La diversità di opinioni e di anime all’interno di un partito è un fattore di ricchezza, è vero. Ma è vero fino a che il confronto non si svolge tra soggetti che sono su posizioni talmente lontane da determinare l’immobilità del partito stesso, e quindi – dato che ormai non si vota da parecchio tempo – del Paese guidato da tale partito.
È senz’altro comprensibile il timore del domani, anche alla luce del lungo percorso fatto per costruire quello che oggi, comunque, è l’ultimo vero partito strutturato in Italia. Il timore è quello di perdere ciò che rimane di tale esperienza, ma forse è arrivato il momento di separare le strade. Che la sinistra vada a sinistra, magari recuperando i voti di coloro che a sinistra ci sono rimasti davvero, nonostante il PD. Con coraggio politico, a testa alta e senza subire il fascino di Draghi o di altri tecnici bocconiani alla Mario Monti. Che la destra del PD vada invece verso il centro, cercando di creare un polo con coloro che non si sentono a casa con Fratelli d’Italia, Lega e ciò che rimane di Forza Italia. Probabilmente ci sarebbero anche punti di convergenza su determinati temi, di sicuro non su altri.
Forse si dovrebbe cominciare a pensare che non sarebbe necessariamente un tornare indietro. Magari non sarebbe neppure un andare avanti, è vero. Ma sarebbe quantomeno un muoversi, a fronte di un immobilismo politico, sociale ed economico che dura ormai da troppo tempo e che, senz’altro, certifica il fallimento di un partito e dei suoi iniziali propositi.