Prosegue in città l’importante dibattito sul futuro della ex Manifattura Tabacchi. Riceviamo e con piacere pubblichiamo l’intervento al riguardo di Alberto Varetti, stimato professionista lucchese e storico rappresentante e socio della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca.
“Mi considero un “anzian di santa Zita” come dice Dante e sono uno dei pochi soci “a vita” della Fondazione Cassa di Risparmio che, alla nomina, contribuì simbolicamente al capitale della stessa ed in questi ruoli intervengo nel dibattito in corso in merito alla futura destinazione degli edifici della manifattura.
Intendiamoci subito: non metto in dubbio la necessità di risanare un intero isolato della città, ma questa esigenza non può e non deve divenire un by pass, uno shunt logico che giustifichi qualsiasi intervento. Chi ragiona così sta costruendosi un alibi con la propria coscienza, quello stesso alibi che poi, per esempio, permette di adibire edifici religiosi ad usi impropri perché, altrimenti, cadono a pezzi!
Fatta questa premessa e con questo spirito ho potuto esaminare il progetto Coima/Fondazione per quanto dello stesso è oggi visibile e dico subito che non mi piace, perché manca di un’idea progettuale che riconnetta gli edifici alla città attualizzandone l’uso. Come? Come i lucchesi hanno fatto in più occasioni, basta pensare all’attualizzazione delle mura urbane che da opera di difesa bellica sono divenute un ameno parco, invece di subire la sorte del ring di Vienna, alla biblioteca realizzata nella Chiesa di S.Ponziano … per concludere che la nostra città è maestra di simili interventi.
Allora non c’è motivo che impedisca di attualizzare anche questo importante residuato industriale, oltretutto assai brutto e difficile da maneggiare, ma occorre tenere a mente la sua storia urbanistica.
Se vivessimo milioni di anni potremmo apprezzare il movimento delle città che si trasformerebbero sotto i nostri occhi, alimentandosi della loro stessa materia riutilizzata con edifici che sorgono, altri che cadono e così via, ma sempre esprimendo la vocazione urbanistica innata dei vari siti: dove c’era la zecca c’è una banca, dove c’era il potere c’è il comune, la provincia, la prefettura e via dicendo.
Se sono stato chiaro continuo e voglio ricordare che la manifattura si connetteva alla città per il fiume umano delle operaie che in bici affluivano all’ingresso di via Vittorio per poi sciamare il pomeriggio verso negozi della città, i bar, le piazze, le chiese: tutto questo è stato travolto dal tempo e quindi la connessione tra la parte industriale della città ed il resto della stessa non può più essere riprodotta, né ciò avrebbe senso alcuno, ma tuttavia si può cercare di riprodurne gli effetti con la previsione di utilizzi che attivino un consistente flusso di umanità tra i vecchi edifici ed il resto della città.
Nell’assemblea della Fondazione, allo stesso presidente, a pochi soci amici che mi ascoltano ho detto che sarebbe stato necessario trovare una soluzione con un concorso di idee, o con il suggerimento di un urbanista esperto ex professo di questi temi, un soggetto, comunque, che fosse mosso più dal piacere di inventare una soluzione che non unicamente da fini lucrativi.
Fatto questo, l’idea poteva essere sviluppata da imprese locali, attuando le necessarie procedure; del resto gli ingredienti per un buon lavoro ci sono tutti: i soldi non mancano (i nostri presso la Fondazione), il Comune è sensibilissimo al problema e noi, i cittadini, vantiamo una tradizione di conservazione urbanistica, tutto questo incoraggia, manca però un’idea che affascini e coinvolga tutti, ma parimenti è per me certo che il progetto attuale è molto discutibile: trasformare finestre in porte, realizzare appartamenti, nuovi negozi, passerella verso le mura e via dicendo mi fa tornare in mente il tentativo di alcuni decenni orsono di realizzare il collegamento del viale Europa con Corso Garibaldi scavalcando le mura! Mi rievoca concetti di provincialità ottusa che vuole apparire grande facendosi colonizzare dalle tendenze di altre realtà.
Ci vuole il consiglio di persona che voli alto e che traduca la necessità dell’evocata ricucitura storica della manifattura con la città con riguardo agli attrattori urbanistici, anche inconsci, della stessa: non c’è da rigenerare nulla, c’è solo necessità di ripulire, valorizzare, attualizzare, ma con rispetto del passato. Per esempio, perché non riattivare la ruota ad acqua che forniva energia allo stabile per poi collegarla ad un generatore che possa illuminare gli edifici con poca spesa? Perché non pensare ad un teatro di posa? Un museo della civiltà contadina?
Purtroppo temo che ormai sia troppo tardi ma non è accettabile il diktat: o così o nulla, anche perché i soldi che verranno utilizzati per l’investimento sono nostri, pertanto chi li gestisce, muovendosi su interessi pubblici, deve rispondere alla città, quest’ultima deve smetterla di chiedere con il cappello in mano ciò che è suo; poco importa se per fare le cose per bene ci vorrà più tempo, quello che conta è fare le cose in modo che nessuno debba poi pentirsene”.