A partire dall’inizio del XXI secolo, l’Algeria ha attraversato un’evoluzione complessa sul piano politico, sociale ed economico. Paese chiave del Nord Africa per estensione, risorse naturali e posizione geopolitica, l’Algeria è rimasta in bilico tra la ricerca di stabilità e l’esigenza di riforme profonde. L’ombra lunga della guerra civile degli anni Novanta ha continuato a influenzare le dinamiche interne anche nei decenni successivi, rendendo più prudente – o più rigida, secondo alcuni osservatori – la postura del potere politico.
Nei primi anni del secolo, la parola d’ordine fu “riconciliazione nazionale”, ma ben presto si è evidenziato quanto fragile fosse l’equilibrio raggiunto. L’apparato statale ha cercato di ricostruire un clima di fiducia, offrendo amnistie parziali ai miliziani e promuovendo una narrazione centrata sull’unità nazionale. Sul piano politico, tuttavia, il potere è rimasto accentrato in modo opaco, dominato dal ruolo preponderante dell’apparato militare e dei servizi di sicurezza, a cui si è affiancata la lunga leadership di Abdelaziz Bouteflika, presidente dal 1999 al 2019.
Un’autorità senza alternanza: la lunga stagione di Bouteflika
Bouteflika si presentò inizialmente come l’uomo della pacificazione. E in effetti, nei primi anni 2000, il paese conobbe una riduzione significativa della violenza politica rispetto al decennio precedente. Il presidente seppe guadagnare un ampio consenso interno, anche grazie all’aumento dei prezzi del petrolio e del gas naturale, che permisero allo Stato di finanziare politiche sociali e grandi progetti infrastrutturali.
Ma il sistema costruito era tutt’altro che democratico. Le elezioni – regolarmente organizzate – erano spesso segnate da accuse di brogli, clientelismo e assenza di reale competizione. L’opposizione era formalmente ammessa ma sistematicamente indebolita da leggi restrittive, intimidazioni o vere e proprie esclusioni dalla scena politica. La stampa godeva di una certa libertà ma restava soggetta a pressioni, censura e cause giudiziarie.
La figura di Bouteflika, nel tempo, divenne sempre più simbolica. Dopo un ictus nel 2013, il presidente compariva raramente in pubblico, ma fu rieletto nel 2014 per un quarto mandato e annunciò la candidatura anche per un quinto nel 2019. Fu questa forzatura a innescare la scintilla della protesta.
Il movimento Hirak e la speranza di una nuova stagione
Nel febbraio del 2019, milioni di algerini scesero in piazza contro il quinto mandato di Bouteflika. Le manifestazioni, pacifiche ma capillari, portarono in poche settimane alle dimissioni del presidente, spinte anche dall’intervento dell’esercito. Nacque così il movimento “Hirak”, un’esperienza civica senza precedenti nel Paese, che reclamava una vera transizione democratica, il rispetto delle libertà individuali, la fine della corruzione e un sistema di potere più trasparente.
La risposta istituzionale fu ambigua. Da un lato, si cercò di offrire segnali di cambiamento: si organizzò un’elezione presidenziale nel dicembre dello stesso anno, che portò all’elezione di Abdelmadjid Tebboune. Dall’altro, la struttura di potere rimase sostanzialmente immutata, con l’esercito ancora al centro del sistema. Le riforme promesse rimasero per lo più sulla carta, mentre molti attivisti del movimento furono arrestati o sottoposti a intimidazioni.
Il Hirak è stato un momento storico di grande importanza, ma ha messo in luce anche le difficoltà strutturali del sistema algerino nel gestire una transizione pacifica e autenticamente pluralista.
Diritti civili: tra leggi restrittive e libertà negate
Sul fronte dei diritti civili, l’Algeria ha mantenuto per lungo tempo un atteggiamento di controllo e repressione. La libertà di espressione è garantita formalmente, ma nella pratica è limitata da leggi che puniscono la “diffamazione” dello Stato o dell’esercito. Diversi giornalisti sono stati incarcerati negli ultimi anni, spesso con l’accusa di “minaccia all’ordine pubblico”. Anche i blogger e gli utenti dei social media sono finiti nel mirino delle autorità.
Le manifestazioni pacifiche sono spesso vietate o disperse con la forza, come avvenuto anche nel corso delle proteste del Hirak. Le organizzazioni della società civile devono affrontare numerosi ostacoli burocratici e legali, e molte ONG internazionali hanno difficoltà a operare nel Paese.
Il sistema giudiziario, sebbene formalmente indipendente, è spesso percepito come strumento del potere politico. Processi contro attivisti o oppositori si svolgono in tempi brevi e senza le dovute garanzie, mentre i casi di corruzione che coinvolgono figure vicine all’establishment raramente arrivano a sentenza.
Diritti religiosi e minoranze: tolleranza selettiva
L’Algeria si definisce uno Stato musulmano, e l’Islam sunnita di rito malikita è la religione ufficiale. La libertà di culto è riconosciuta dalla Costituzione, ma resta soggetta a forti restrizioni. I non musulmani – in particolare i cristiani e i membri di comunità evangeliche – possono praticare il culto, ma solo in luoghi autorizzati dallo Stato e spesso con limitazioni pratiche. Negli ultimi anni si sono registrate chiusure di chiese protestanti, con accuse formali di “proselitismo”.
Anche all’interno dell’Islam, esistono controlli rigidi. Le autorità cercano di evitare la diffusione di correnti salafite o wahhabite, viste come destabilizzanti. Gli imam sono formati dallo Stato e devono attenersi a un discorso religioso controllato.
La minoranza berbera (in particolare i Cabilini) ha ottenuto il riconoscimento della lingua tamazight come lingua nazionale (2002) e poi ufficiale (2016), ma permangono forti tensioni culturali e rivendicazioni autonomiste, soprattutto nella regione della Cabilia.
Sicurezza: tra minacce residue e militarizzazione della politica
Dopo la fine della guerra civile, la sicurezza interna è migliorata sensibilmente. Gli anni Duemila hanno visto una progressiva riduzione della violenza jihadista, anche grazie a una strategia di controterrorismo molto aggressiva. Tuttavia, cellule legate ad al-Qaeda o allo Stato Islamico continuano ad operare nelle zone montuose e desertiche del Paese, seppure con minore intensità rispetto al passato.
La minaccia terroristica è stata utilizzata spesso dal governo come giustificazione per misure repressive. La retorica della “stabilità” è diventata uno strumento per scoraggiare ogni forma di contestazione, presentata come potenzialmente pericolosa. In parallelo, l’apparato di sicurezza ha mantenuto un ruolo centrale nella vita pubblica, con i servizi di intelligence (il famigerato DRS, poi ristrutturato) che continuano ad esercitare un’influenza significativa.
Un’economia dipendente dagli idrocarburi: crescita, crisi e disuguaglianze
L’economia algerina si basa in maniera quasi esclusiva sulle esportazioni di petrolio e gas naturale, che rappresentano circa il 95% delle entrate in valuta estera. Nei primi anni 2000, l’aumento dei prezzi del petrolio garantì un forte afflusso di risorse, che permise allo Stato di finanziare programmi di edilizia pubblica, sussidi per i beni di prima necessità e assunzioni nel settore pubblico.
Tuttavia, la mancanza di diversificazione economica ha reso il Paese vulnerabile agli shock esterni. Il crollo dei prezzi degli idrocarburi nel 2014 ha messo in luce tutte le fragilità del modello. Le riserve in valuta sono diminuite, il dinaro ha perso valore, e le casse pubbliche hanno cominciato a soffrire. Le autorità hanno tentato alcune riforme, ma con scarso successo: l’ambiente imprenditoriale è appesantito dalla burocrazia, dalla corruzione e da un clima di incertezza politica.
Il tenore di vita della popolazione ha risentito pesantemente di questa crisi. L’inflazione ha colpito i generi alimentari, il mercato del lavoro soffre una disoccupazione giovanile superiore al 30%, e molti laureati non riescono a trovare un impiego adeguato. Le disuguaglianze tra le aree urbane e le regioni periferiche si sono acuite, alimentando frustrazione e rabbia sociale.
Nonostante ciò, l’Algeria dispone di potenzialità enormi: risorse naturali, una popolazione giovane, un sistema educativo relativamente diffuso. Ma la trasformazione richiede una visione politica di lungo termine, che finora è mancata.
Conclusione: una transizione incompiuta
L’Algeria ha affrontato il XXI secolo portando con sé il peso del trauma degli anni Novanta, ma anche con la speranza di un rinnovamento. Il lungo dominio di Bouteflika ha garantito una certa stabilità, ma ha anche bloccato l’evoluzione democratica del Paese. Il movimento Hirak ha dimostrato che la società algerina è viva, consapevole, e desiderosa di cambiamento.
Eppure, la transizione rimane incompiuta. I diritti civili e politici continuano a essere compressi, l’economia resta fragile, e il sistema istituzionale è ancora dominato da logiche autoritarie e da un establishment militare poco incline a cedere il potere.
La sfida per l’Algeria nei prossimi anni sarà duplice: avviare una reale apertura politica e affrontare con coraggio le riforme economiche necessarie per costruire un futuro più equo e sostenibile. Solo così il Paese potrà riscattarsi da decenni di immobilismo e offrire nuove prospettive alle generazioni future.
Eduardo
Image by David Peterson from Pixabay