Enumerate così dettagliatamente nel precedente articolo sul nostro e messe in bella fila tutte le numerose imprese ed innovazioni di Elon Musk, il quadro che ne emerge, più che impressionante, è sbalorditivo, al limite dell’incredibile. Viene da chiedersi come abbia fatto, essendo ancora abbastanza giovane. Comunque siano andate le cose, non v’è alcun dubbio che abbiamo di fronte un imprenditore e soprattutto un innovatore di primissimo livello, le cui innovazioni di fatto non solo sono inquadrabili nello “spirito del nostro tempo”, ma ne sono materia stessa con la loro forza innovativa e dirompente.
Le domande da porsi sono almeno le seguenti:
- “perché questi innovatori vengono tutti dallo stesso posto”? (Andrea Bicocchi).
- per quali vie conquistano tanto potere tecnologico ed economico e non soltanto? E quale uso ne possono fare?
Questa seconda domanda serve a mettere in chiaro che se è opportuno non confondere i “capi” con le loro aziende, resta il fatto inoppugnabile che queste costituiscono il fondamento stesso del loro potere economico, ma anche mediatico e politico. Capire quali percorsi organizzativi e istituzionali sono stati seguiti può essere utile per trovare strumenti di regolazione e porre argini a comportamenti potenzialmente debordanti. Va da sé che le possibili risposte alle domande sono molte e interconnesse e richiederebbero molto più di un breve commento.
Rispondendo alla prima, solo un paio di considerazioni su elementi che conosco meglio per motivi di studio e di osservazione diretta. Musk è di fatto immerso in un mondo – e si è intelligentemente circondato – di moltissimi ricercatori di primo ordine che, nei luoghi dove appunto opera, si formano in università che funzionano bene. Sono stati dapprima formati adeguatamente e poi – con borse di studio abbastanza pingui, finanziamenti per la ricerca, laboratori attrezzati, con guide esperte, lavoro di squadra… preparati efficacemente allo svolgimento delle attività che li attendono una volta fuori dalle Università. Qui, sono ben retribuiti, con prospettive di promozione, di salire la scala sociale e di esprimere compiutamente le loro potenzialità individuali lavorando in vere e proprie comunità scientifiche multidisciplinari che conducono a quella trans-disciplinarietà che rende possibile la preziosa “fertilizzazione incrociata” tra le varie discipline. Tutto ciò in accordo con le loro capacità individuali, conoscenze e competenze. Naturalmente non tutti hanno grandi talenti, ma per lo più trovano collocazione compatibile col loro livello di ingegno, preparazione, maturità culturale, capacità relazionali. Si tratta forse di un risultato di generazione spontanea? Selezione naturale? Non proprio. Non è nemmeno il portato della moderna tecnologia che ne è semmai il risultato; e neanche di quella che Karl Marx credeva fosse il prodotto finale di una inesorabile dialettica. Si può semmai inquadrare, per certi aspetti, in quella divisione del lavoro analizzata da Adam Smith tipica delle società dai tempi della Rivoluzione Industriale. In realtà è prodotto finale di una società di uomini attraverso una meditata predisposizione di incentivi adatti, grazie ad una visione non miope di come il mondo economico e delle tecnologie crescono ed evolvono. E non è basata su vantaggi altri (censo, relazioni familiari, colore politico…), se non la comprovata competenza a svolgere una certa attività e a farla evolvere.
La lezione (per noi) è che tutto ciò essendo costruzione umana, può essere imitato (come ha fatto la Cina pur essendo un sistema politico molto diverso), cambiato per adattarlo ai diversi contesti culturali, economici e istituzionali, e perfezionato. La condizione è rendersi conto che lo “status quo” è in realtà uno “stato di cambiamento” permanente: perché tutto passa, tutto cambia, da sempre e non solo nel mondo d’oggi, dove semmai si assiste ad una accelerazione del cambiamento. Piaccia o non piaccia.
Il secondo tratto da prendere in considerazione è che, in quei luoghi, il sistema di tassazione che raccoglie le entrate sul principio che si paga in base al reddito totale di cui si gode, incentiva anche in molti modi nei contribuenti (singole persone, grandi e medie famiglie in termini di redditi e rendite percepite, imprese, altre organizzazioni) il ricorso ad effettuare certe spese ed uscite documentate da portare in detrazione. Il potente incentivo è che così si pagano meno tasse e ciò rende la pratica molto diffusa. Si tratta di operatori che devolvono somme spesso anche molto cospicue a borse di studio, “fellowships”, finanziamento di università, programmi di ricerca in ogni campo e così via, oltre al volontariato, ad attività di benevolenza e assistenza. Lo fanno per pagare meno tasse, ma molti anche nella convinzione che lo Stato sia inefficiente sia come collettore di imposte e tasse che come distributore di risorse e investitore negli impieghi che uno Stato moderno richiede. Non v’è bisogno di spendere una parola in più per comprendere come questo “ambiente” sia propizio ai più vari percorsi imprenditoriali e foriero di risultati importanti.
Ho schematizzato al massimo rischiando di fornire una visione idilliaca di un mondo che è piuttosto circoscritto, anche se con ampi risvolti ed effetti capillari molto importanti in svariati campi. E’ quello nel quale sono immerse e agiscono le grandi “corporations” innovative come quelle di Musk. Mi preme di chiarire, a scanso di equivoci, che Il tutto non è generalizzabile, senza verifiche, al resto di quei luoghi che furono di Benjamin Franklin, Thomas Jefferson, Abraham Lincoln, luoghi dove nacquero le libertà democratiche che conosciamo e dove fu progressivamente costruita una società forte e prospera (della quale oggi con preoccupazione scopriamo, giorno dopo giorno, punti deboli, deficienze, forti limiti).
Passando alle seconde domande, vale ancora il “caveat” che schematizzo molto per brevità, sperando di non banalizzare l’essenziale. Il riferimento ora è a come si formano, crescono e operano le grandi “corporations”, al contesto organizzativo, operativo, e giuridico-istituzionale che le riguarda e le plasma laddove esse nascono, vivono, crescono, si ramificano ed estendono i loro campi e raggi di azione con le loro scelte organizzative e i loro comportamenti. Non operano nel vuoto assoluto, ma nel quadro di quello che sinteticamente si può definire come il complesso di istituzioni del “diritto degli affari”, che ricomprende varie branche del diritto, così come molti enti intermedi che lo amministrano e “in primis” le imprese stesse che lo utilizzano. Si tratta di portare in luce certi tratti cruciali e snodi del contesto operativo, istituzionale ed economico-organizzativo in cui operano queste grandissime imprese e società, che sfruttati con acume e costanza dai “capi d’azienda”, la cui determinazione ad agire è parte del loro stesso essere, portano alla formazione di imprese colossali che godono di vantaggi competitivi esclusivi. Per inciso, questo può essere utile a capire se, come e in che limiti quei contesti e quelle norme siano in qualche modo e misura modificabili, e sollecitare il disegno di azioni politiche per eliminare o ridurre gli effetti negativi producibili da quei “capi” dalle personalità eccezionali nei lati costruttivi e creativi, ma anche potenzialmente debordanti in altri meno commendevoli. Ciò va però oltre questo commento.
Le “corporations” in questione posseggono potere per la loro mera dimensione – in base a qualsiasi misura scelta per darne una valutazione quantitativa. Sono “visibili” sul proscenio del paese o dei paesi in cui operano e fanno di tutto per esserlo; producono beni e servizi di richiamo e resi noti con la pubblicizzazione sui mezzi di informazione- talora da esse stesse controllati – spendendo cifre considerevoli; hanno “giri d’affari” da capogiro; assorbono molta mano d’opera di ogni ordine e tipo il che li rende accetti laddove sono presenti. La loro dimensione opera quasi come con la forza di gravità (o forza peso) che sul nostro pianeta è maggiore che sulla luna perché questa ha una massa inferiore. Tale potere va decisamente aldilà di quello strettamente economico – o potere orizzontale di mercato- che consiste nel fissare i prezzi anche con sofisticate tecniche di discriminazione di prezzo, i gradi qualitativi dei prodotti e servizi offerti e altre condizioni transazionali fino alle più minute specificazioni contrattuali. Si tratta di società o gruppi di società che operano in una pluralità di campi di produzione e ambiti anche molto diversi ed eterogenei, ma le matrici del loro operare verso la crescita dimensionale sono in pratica le stesse.
Una seconda caratteristica è che hanno spesso raggiunto la loro taglia e raggio operativo in molti settori non tanto per crescita interna, come succede di solito, ma per acquisizione o per fusione di altre imprese in virtù dei gargantueschi flussi finanziari di cui dispongono con i ricavi dalle vendite dei loro prodotti e servizi (il “giro d’affari”). Spesso sono in grado addirittura di far fallire i concorrenti per eliminarli o di tarpare loro le ali (vedi poco sotto). Una terza caratteristica è che la loro sopravvivenza non dipende più dal successo nei singoli mercati o dall’ aree geografiche in cui operano che possono riguardare anche tutti i continenti. Proprio perché operano con un coacervo di settori che talora fanno registrare andamenti diversi, nel tempo e nello spazio, possono compensare le perdite nell’uno grazie ai guadagni nell’altro. Ad esempio il Social X di Musk è attualmente in rosso, ma non altri comparti. Oltre al potere orizzontale di mercato, dal momento che spesso sono monopolisti dal lato dell’offerta di prodotti e servizi – e Musk lo è in più casi- hanno anche molto potere verticale: sono talmente grandi che le loro esigenze di inputs di materiali e di fattori per le produzioni sono così consistenti da renderli monopsonisti, monopolisti dal lato della domanda. In tal modo, finiscono con l’avere controllo delle “filiere di produzione”, cioè sugli stadi verticali o successivi di produzione o distribuzione dei loro prodotti. Spesso anche di un certo numero di quelli laterali e contigui. Questo tipo di potere mette in grado di “strizzare” presso le imprese fornitrici i prezzi delle merci e dei servizi da loro richiesti e, molto importante, può consentire di bloccare o ridurre quell’offerta che sarebbe altrimenti indirizzata ai concorrenti, in tal modo pregiudicandone l’operatività e sopprimendo la concorrenza nei loro confronti.
Tutti questi vantaggi competitivi, di cui non godono normalmente le medie e grandi imprese mono-settoriali, per non parlare delle piccole, od anche la gran parte di certe maggiori imprese operanti in più settori, sono riconducibili ad un certo numero di tratti istituzionali/normativi.
Un primo di questi è la separazione giuridica ed operativa della proprietà dell’impresa dal controllo della gestione o “maneggio degli affari”. I “managers” gestiscono l’impresa e possono essere tantissimi, disseminati nelle varie strutture d’impresa e organizzati gerarchicamente nei vari settori operativi e aree geografiche in cui operano. I moderni sistemi di comunicazione e informazione annullano le distanze. Oggi “nessun luogo è lontano”. Si tratta di personale ben attrezzato a gestire, selezionato “ad hoc” e ben pagato con ampi margini di autonomia ed indipendenza rispetto alla proprietà. Sul “management” non ricade istituzionalmente il rischio d ’impresa, semmai quello di essere licenziati dai proprietari non soddisfatti da lla redditività dei loro investimenti. È sui proprietari che grava, da ultimo, tale rischio. Questa separazione è alla base della considerevole capacità e flessibilità operativa delle imprese in parola, pur essendo colossali, della velocità nelle scelte e decisioni da prendere e della prontezza di risposta al variare degli andamenti economici. Da ultimo, ma non per ultimo, la forma societaria di società di capitali -per cui l’impresa acquista personalità giuridica indipendente dalle persone – costituisce una fonte di grandi disponibilità finanziarie di cui possono dotarsi e disporre: si possono mettere insieme molti detentori di mezzi di capitale finanziario sotto forma di soci dietro sottoscrizione di quote di capitale societario o azioni od emettendo obbligazioni. La personalità giuridica dell’impresa fa sì che è essa eventualmente a fallire, cosicché i proprietari non subiscono l’onta delle condanne personali in caso di fallimenti e bancarotta fraudolenta.
Questo armamentario è naturalmente a disposizione di qualsiasi impresa – tranne le piccole e piccolissime. Ma solo quelle veramente grandi o che aspirano a crescere, con capi ambiziosi e capaci, con una certa dose fors’anche di megalomania e molta determinazione tipica di certi personaggi, ne sanno sfruttare appieno tutte le potenzialità organizzative ed operative fino a divenire imprese elefantiache. Mega-imprese che si possono caratterizzare come veri e propri governi economico-finanziari privati, avendo talora bilanci che superano quelli pubblici dei paesi ospitanti. Spesso sono “stati dentro Stati”. Il loro potere va ben oltre quello che hanno sui mercati e nei settori che servono. Mentre però i governi sono organizzati su bas di democrazia e, appunto, governano in base a procedure democratiche, questi “stati negli Stati” sono organizzazioni autocratiche e fortemente gerarchiche con obiettivi disegnati e perseguiti da una società di controllo al vertice. In quanto strutture gerarchiche, hanno una “governance” interna molto sofisticata, ma non governano, ordinano lungo una struttura organizzativa tipicamente costituita da una società di controllo e più società esecutive controllate. La prima può trovarsi nel paese A, mentre le altre e gli stabilimenti di produzione e la catena distributiva nei Paesi B, C, D, E…
L’obiettivo ultimo di queste elefantiache organizzazioni non è, come molti si arrestano a credere, la massimizzazione dei profitti. Il profitto è una categoria concettuale sfuggente, ha contorni non definiti, e forse anche non definibili quando si tratta di grandi imprese multi-settoriali e localizzate in molte sedi e aree geografiche diverse. Ciò che non è definibile con precisione è difficile da misurare contabilmente. Credere che alla fine dell’anno l’impresa vada ad aprire il cassetto e vi trovi i profitti fa parte del credo popolare, ma non è la realtà. Si tratta di una mera posta contabile ottenuta in base a definizioni ad hoc, nel rispetto di molte disposizioni di legge e spesso quantificata per soddisfare la proprietà al momento della distribuzione degli utili o profitti di esercizio. Del resto, “se fosse facile farne, tutti ne farebbero”, sbotta “Mercadet l’Affarista” alla pressante richiesta dell’usuraio che esige la restituzione a fine anno contabile delle somme prestate (impossibile non ricordare Tino Buazelli nella omonima commedia di Honorè de Balzac). Sopra un piano più generale, è del resto difficile dire se le mega-imprese fanno “profitti” perché efficienti in quanto grandi, o perché grandi in quanto efficienti.
L’obiettivo economico-commerciale ultimo delle mega-imprese in discorso si restringe, alla fin fine, alla massimizzazione dei ricavi dalle vendite con un qualche vincolo di profitto. Il che non significa ottenere il più grande volume fisico possibile che, peraltro, per imprese multi-prodotto è arduo da definire. Si tratta invece della massimizzazione del totale delle vendite espresse in moneta che, nel mondo degli affari, è la misura ovvia dell’ammontare detto “giro di affari”. Giro che si adoprano ad aumentare il più possibile perché da esso deriva il flusso di denaro per la loro crescita dimensionale.
Questo, in estrema sintesi, il quadro dei punti forti dell’organizzazione delle attività economiche e d’impresa nei sistemi di mercato del capitalismo come lo conosciamo a tutt’oggi. Per grandissime linee, questo è il percorso perseguito da Musk che vi ha aggiunto l’ambizione personale, la grande capacità di lavoro, spendendo il suo “demone” e creatività nel campo delle tecnologie industriali (i robot Tesla e molto altro) sulle quali ha costruito la sua prima fortuna, e poi in quelle che della sua rete informativa (il Social X) e l’infrastruttura di comunicazioni satellitari (Starlink) e quant’altro. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.
“Oltre a possedere grande potere sui mercati delle loro produzioni, [queste imprese] sono in grado di influenzare l’opinione pubblica e di esercitare enormi pressioni per ottenere leggi a loro favorevoli e molto altro ancora”. Questo sosteneva già nel 1952 (!) George J. Stigler in “The Case Against Big Business”, che si può parafrasare in “perché sono contrario alle grandi imprese”; primaria colonna dell’Università di Chicago, Nobel per l’economia nel 1982 e, considerata la Scuola di appartenenza, al disopra di ogni sospetto di essere contro il mondo degli affari che analizzò con grande onestà intellettuale, raffinatezza analitica e cultura generale di spessore. All’epoca Stigler si riferiva quasi esclusivamente a grandi imprese del settore manifatturiero operanti in più settori negli USA. Quando, come oggi, operano in molte aree geografiche del mondo e nel campo delicatissimo dei servizi di comunicazione, dell’informazione e dei ”socials”- com’è il caso di Musk – il potere di influenzare, guidare ed anche sviare l’opinione pubblica e influenzare a proprio vantaggio i governi non va assolutamente sottovalutato.
Sorge a questo punto spontanea una domanda: questo potere che potere è se non lo si esercita? Ognuno può dare la sua risposta. Vale la considerazione che se si stabilisce una più o meno stretta- saldatura tra questi “stati” e uno Stato qualsiasi, sia questo nazionale o Federale, allora aumenta la probabilità che la sommatoria del monopolio economico delle imprese col monopolio politico statuale possa condurre ad una deformazione in direzione illiberale di un sistema democratico.
Per concludere e per alleviare l’angoscia che ciò possa davvero capitare, aggiungo che mi pare che la tracotanza con la quale certi programmi sono verbalizzati stia suscitando delle reazioni, che stia producendo anticorpi. Gli stati moderni, inclusa l’Italia, dispongono, se vogliono usarli, di diversi sistemi di contrasto. Dalle Autorità Antitrust alle “politiche di regolazione” – le “regole del gioco” – per un uso pubblico degli interessi privati legittimi e per contrastare iniziative ritenute pericolose per le loro democrazie, a tutela dei cittadini. Occorre contrastare agendo con la testa nella consapevolezza anche che “chi pecora si fa, lupo la mangia”. Aggiungo una considerazione “filosofica” di ottimismo, non una generica speranza in quanto fondata su elementi piuttosto certi: non sono le imprese ed i loro prodotti a preoccupare, ma gli uomini che le posseggono e guidano, si tratta di uomini per tanti versi superdotati, con mezzi di persuasione finanziaria e mediatica enormi, ma sono pur sempre esseri mortali e perciò limitati, la cui giornata è, come per tutti, fatta di 24 ore. Inoltre e molto importante, quel futuro che cercano di costruire a proprio vantaggio resta pur sempre un’incognita.