In questi giorni, oltre alla finanziaria, arriva al suo primo traguardo (il licenziamento in CdM) la riforma costituzionale per il premierato.
La proposta del premierato prevede che il presidente del consiglio venga eletto in collegamento alla coalizione che vince le elezioni: i partiti si associano con un candidato presidente del consiglio e vanno al voto. Il candidato premier che prende più voti governa e porta con sé la maggioranza del 55%. In questo il sistema è molto simile a quello per l’elezione del sindaco e, per questo, la proposta viene anche definita «il modello del sindaco di Italia». La parte della riforma che è ancora in discussione nella maggioranza è legata a definire cosa accade in caso di sfiducia. Da una parte c’è FI che vorrebbe che il Capo dello Stato possa dare un incarico ad un altro premiere purché sostenuto dalla stessa maggioranza che ha vinto l’elezione, eventualmente allargata ma senza che ne manchino parti. FdI è per il principio «simul stabunt simul cadent»: se cade il governo cade il parlamento e si torna a votare.
La scelta del premierato è una mediazione tra le ipotesi iniziali di presidenzialismo (di FdI) e l’attuale sistema. Sistema che, se qualcuno lo avesse dimenticato, non funziona.
Non funziona perché ha generato una media di quasi 3 governi ogni 5 anni, quando un sistema sano ne dovrebbe generare solo 1, e, negli ultimi 30 anni, ha visto solo 2 legislature di durata effettiva uguale a quella prevista di 5 anni. In totale dal ’94 ad oggi ci sono stati 18 governi diversi con una durata media di meno di 2 anni.
Chi è che vuole davvero sostenere che questo «era il disegno dei padri costituenti»?
Cambiare è una necessità, non un vezzo. Si può discutere di come ma certo non della necessità. E infatti la sinistra, fedele ad una tradizione radicata quando non vuole fare una cosa, si dà al «benatrismo»: dice che bisogna cambiare ma «in modo diverso». Così sceglie di non scegliere: non lo ha fatto quando era al governo, con la motivazione che cambiare delegittimerebbe il parlamento eletto, e non lo fa ora chiedendo soluzioni certamente non accettabili per la maggioranza come la sfiducia costruttiva.
La sfiducia costruttiva sostanzialmente dice che, se un premier in carica deve essere sfiduciato dal parlamento lo può essere solo se contemporaneamente viene indicato un nuovo premier con la relativa maggioranza. Il meccanismo sotteso che dovrebbe aumentare la stabilità è che mettere d’accordo delle forze politiche per far cadere un premier è più molto più facile che essere d’accordo per fare un nuovo governo.
Ma il voto di sfiducia senza proposta esiste lo stesso: se il voto di sfiducia non propone anche un nuovo governo allora finisce la legislatura. Solo che questo meccanismo non impedisce che si formino maggioranze eterogenee come quelle che sono state nella scorsa legislatura: prima Lega-5Stelle poi 5Stelle-CentroSinistra infine coalizione larga e se non si è arrivati ad un ulteriore governo è perché Draghi aveva chiarito e ripetutamente riaffermato che non avrebbe accettato un Draghi-bis. L’unica cosa che davvero verrebbe eliminata dalla sfiducia costruttiva è la consuetudine di fare le cosiddette «crisi al buio»: ossia fare la crisi senza sapere come venirne fuori ma contando che poi, in Parlamento, qualche soluzione salti fuori. Francamente un po’ poco per contrastare la mortalità dei nostri governi.
L’obiezione più frequente è che il premierato è una riforma che darebbe troppo potere al capo del governo; addirittura che «è la liquidazione della forma di governo parlamentare» (copyright Dario Parrini – PD –, presidente della commissione affari costituzionali in Senato). E ancora che favorisce l’uomo solo al comando e che nessun paese del mondo la adotta, lasciando intendere che tanto potere non è giustificabile.
Solo che la prima obiezione si fonda su un concetto sbagliato: non spetta al parlamento governare ma bensì gli spetta di legiferare. Le attribuzioni ulteriori sono una possibilità non una necessità. In molti sistemi (vedi la Francia) il parlamento vota la fiducia ma non viene coinvolto neppure in molte delle sue attività che rispondono al Presidente direttamente eletto dal popolo. Nelle democrazie presidenziali addirittura il capo del governo è rimuovibile dal parlamento solo con complessi procedimenti.
La seconda obiezione è inconsistente: il premierato dona evidentemente meno poteri al premier di quanti non ne abbia un Presidente di un qualunque sistema presidenziale o semipresidenziale. E di questi ce ne sono molti nel mondo.
Il rafforzamento del capo del governo è una necessità per l’Italia. Il premierato è una strada: forse è persino poco rispetto ad altri assetti istituzionali. Dire che il parlamento è ridimensionato è in parte vero, ma è proprio la tradizione al ribaltamento delle maggioranze parlamentari che è la vera ragion d’essere della riforma: se non vogliamo cambiare nulla non possiamo aspettarci che le cose vadano diversamente.
Andrea Bicocchi @Andrea_Bicocchi
Interessante articolo. Manca però – se mi posso permettere – un dettaglio di non poco conto: ad oggi non esiste – in nessuno Stato di quelli con cui l’Italia si dovrebbe confrontare – l’elezione diretta del premier. Ci avevano provato in Israele (che ha da sempre un alto tasso di ingovernabilità, con elezioni frequenti), funzionava talmente bene che l’hanno tolta. O gli altri Stati sono molto stupidi o siamo noi molto furbi a volerla introdurre.
È vero, in nessuno stato viene fatto: questo però non significa che non possa funzionare, solo che non viene fatto.
Come in tutte le cose, anche una buona idea se viene implementata male dà pessimi risultati. Quindi, riguardo alla bontà della riforma, molto dipenderà da come verrà fatta la proposta finale: se ci saranno troppi contrappesi che ridurranno il movimento del premier o troppi bizantinismi nelle procedure, l’utilità sarà scarsa o nulla.
Vorrei mettere anche il caso contrario (tipo se ci fosse troppo potere per il premier…) ma è altamente improbabile che un tale caso si verifichi. In fondo, come detto anche nell’articolo, questo del premierato è un modo di ammorbidire il potere che ci sarebbe in una soluzione presidenziale o semipresidenziale.
Che, per rispondere più direttamente all’osservazione, è invece adottata in molti paesi nel mondo.
Non sempre con risultati catastrofici.